La mia terza notte maldiviana è stata stomachevole. Ho vomitato 14 volte, le ho contate. Dopo due giorni di assestamento sull’isola da cartolina, il corpo unto dalla crema solare protezione 50, i banchetti dietetici conditi da pesce appena pescato e verdura, mi sono concessa una serata di eccessi. L’ultima volta che ho vomitato così a causa dell’alcol, e non del virus intestinale, avrò avuto si e no 15 anni. Un’indianata in spiaggia a Celle Ligure. Mi hanno dovuto portare a casa di peso, all’epoca ero un fuscellino, e la mattina dopo non ricordavo neppure il mio nome.
La mia terza notte maldiviana sull’isola di Maayafushi mi ha
fatto dimenticare non solo il mio nome. Mi
ha fatto capire quanto mi manchi la felice età delle illusioni. Si si, proprio
quella leopardiana. Non l’ho fatto apposta a bere così tanto. Non me ne sono
accorta. Quel giorno sono arrivati in nostri amici David e Angela e dopo cena e
tre bicchieri di vino locale, o forse quattro o cinque, mi sono stampata con un cocktail di quelli che chissà che diavolo
ci avevano messo dentro.
Da quando ho perso il controllo a quando ho avuto il primo appuntamento con la tazza del
cesso credo di avere, in ordine sparso:
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Vaneggiato alla grande
·
Barcollato
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Ammiccato anche a donne, anziani e bambini
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Fatto un inaspettato bagno serale
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Fatto la pipì almeno 15 volte
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Fatto un cambio d’abito e di mutande
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Essermi passata il dito insalivato sugli occhi
per rimediare al mascara colato
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Essermi fatta compatire da mio marito e dai miei
amici David e Angela
·
Aver bevuto ancora, non paga, una roba dolciastra
tipo batida di cocco
·
Essermi fatta trascinare al bungalow da mio
marito, sfinito dai miei vaneggiamenti e vagheggiamenti
La mattina dopo ero
una larva. Mio marito è uscito a vedere l’alba, spossato per avermi tenuto per tutta la notte la testa mentre il mio
stomaco si ribellava. Poi, premuroso, è andato a prendermi del pane, mi ha
imboccato, mi ha preparato un moment e un plasil. Un angelo.
Non è che io, 38 anni
il 13 marzo, non sia felice. O meglio, dando per scontato che la felicità
non esista, se non a picchi che durano poco più di un attimo, sto sommariamente bene. C’è solo una
cosa che stona e che combatte con quello stato di serena inerzia, la presa di coscienza. La
responsabilità. La maturità anagrafica. Il brusco dissiparsi dell’età dell’illusione.
Età dell’illusione.
Quando fai le cose senza pensare ma
va bene così. Quando tutto scorre senza
scossoni. Quando l’unica preoccupazione è tornare a casa in tempo per il coprifuoco se no ti becchi un
cazziatone. Quando sembra non esista la
forza di gravità e il tuo corpo è leggero. Quando anche la testa è leggera. Quando non hai il senso della paura e affronti
la vita impavida. Quando tutto va bene
anche se non va bene. Quando sei la
reginetta della scuola anche con le ballerine, il maglione sformato e i
capelli sciolti al vento. Quando sotto l’anestesia
del delirio di onnipotenza credi che il mondo giri intorno a te.
Ecco. A volte vorrei
proprio quell’anestesia. Vorrei vivere anestetizzata per non pensare. Per
rifugiarmi in un mondo parallelo e alterato dove la tua testa è ancora così
leggera. Dove ogni scelta sembra semplice e non esiste il dolore. Non esiste il dolore. Si, se potessi
chiedere un desiderio al mago della lampada gli chiederei quella sana
anestesia. Una breve letargia per poter
spegnere la coscienza per qualche attimo. Così poi sarei rifocillata e di
nuovo pronta per gli scossoni. Ma Aladino non esiste. Così come non esiste la
felicità.
L’effetto dell’anestetico è finito nelle fognature
maldiviane. Ma io, in fondo, sono felice.