Madrid, 2018. Vent’anni dopo.
Ci eravamo lasciate alla soglia del quarto di secolo. Senza mai lasciarci, in verità. Ognuna ha sempre
tenuto d’occhio le vicende di vita delle altre. Ci sono i social. Ci sono i
compleanni. Gli amici comuni che ogni
tanto si incontrano.
Ci eravamo lasciate alla soglia dell’inizio delle nostre vite da adulte. Senza mai lasciarci, in
verità. Ognuna ha preso la sua direzione raggiungendo quegli obiettivi, figli
di vecchi retaggi. O di ambizioni. O di cammini già tracciati e inevitabili.
Eravamo donne, in
fase embrionale. E in quell’embrione c‘era già tutto il patrimonio di
quello che saremmo diventate. Vent’anni dopo.
Laura era la mia migliore
amica del liceo. La compagna di banco e di mille avventure. La compagna
dell’adolescenza. Laura era l’amica ideale, per una come me. Messa su un piedistallo senza averlo
chiesto. Tenere alto il prezzo della “fama”. Alzare l’asticella fino al
record del mondo. Laura era la parte sana
di me. Credo di avere ancora, da qualche parte, conservato come fosse una
santa reliquia, un bigliettino che mi aveva scritto. Mi comunicava - scrivendomelo
perché era più facile che dirmelo - che grazie a me era riuscita a uscire dal
suo guscio. E io mi rifugiavo in questo cuore pulito, completamente privo di quella tonalità di verde invidia che in
quel momento sembrava essere un male pandemico.
Elena era la mia
migliore amica della squadra di pallavolo. Bella e selvatica. Un diamante grezzo. Elena si portava
dentro un tormento irrisolto, un cuore sanguinante. Aveva solo 15 anni ma in
fondo ai quei suoi occhi scuri si leggeva malinconia. Ma lei, splendida e forte,
cercava di esorcizzare vivendo con leggerezza. Urlando al mondo la sua libertà. Ci leghiamo empaticamente. Ci conosciamo da sempre senza conoscerci.
Veleggiamo insieme, mano nella mano,
verso l’indipendenza. Verso l’affrancarsi da qualcosa che neppure noi riusciamo
a determinare con certezza assoluta. Viviamo la nostra adolescenza come due
quindicenni in cerca di vita. Abbiamo bisogno di abbeverarci di quella vita.
Silvia non era la mia
migliore amica. Una ragazza carina con lo sguardo vivace e un sorriso
bellissimo. Era al liceo, in classe con una delle mie storiche amiche, la
Francesca Cicardi. Abbiamo avuto un fidanzatino in comune. E qualche anno dopo abbiamo avuto un altro fidanzato in comune che ha
generato, pur arbitrariamente, un problema di rivalità. Neppure troppo
velata. Silvia era la migliore amica di Elena e tutte e due – dopo che Elena ha
fatto ritorno nella squadra d’origine -
giocavano a pallavolo con Laura. Il
cerchio si chiude.
Pur non perdendoci mai ci si è perse. Poi Laura si sposa. A
43 anni e dopo un figlio, Riccardo, la decisione di celebrare, secondo tutte le
regole della tradizione, il matrimonio.
E in una sonnecchiosa giornata di fine maggio, quando le fatiche dell’anno scolastico dei
figli, le tossi, il mocciolo al naso e le mamme moleste, volgono al termine,
Elena crea un gruppo su whattsapp, il male pandemico del nuovo secolo. “Addio
al nubilato Lalla”. Ci propone un week-end insieme, butta lì una data,
qualche meta papabile. E’ la metà di agosto quando il piano prende forma. Si
prendono i biglietti aerei, si prenota l’albergo. Primo fine settimana di
settembre. Madrid.
Ed è quando ci ritroviamo, pronte per partire, che scatta la
magia. Il tempo non è passato. Siamo di
nuovo noi quattro, poco più che ventenni, con gli stessi occhi, con lo stesso
sorriso spensierato. Laura è più consapevole di sé stessa ma il suo cuore è sempre pulito. Si è
appena macchiato di vita. Elena porta dentro di sé un dolore ancora più
grande. Il suo cuore ha smesso di sanguinare ma la cicatrice fa male. Eppure la sua gioia di vivere vince su
tutto. La vera sorpresa è Silvia. Il
suo essere donna ha cementato la sua personalità e ha capito che non siamo mai
state rivali. Siamo molto simili. E abbiamo, indubbiamente, gli stessi
gusti, cinquecentocabriocompresa.
Nello scorrere
naturale delle ore tutto è spontaneo e familiare. Si dorme tutte in camera
insieme, si chiacchiera fino a notte fonda, si ride. Si ride. Si ride. Tutto torna leggero, all’attimo prima
che la consapevolezza ci investisse. Ma la diga crolla durante lo spettacolo di
flamenco. Il pathos è straordinario e i tacchi dei ballerini rimbombano in
gola. E io sono lì, nella penombra del locale, dove si stanno gridando
sentimenti in spagnolo cantato. E’ il
mio cuore a gridare. Quel mio cuore sporco di vita, di esperienza, di compromesso.
Inizio a piangere e non smetto fino alla fine. Come se quelle lacrime avessero ripulito la mia anima riportandola
alla purezza dei vent’anni.
Poi il sabato del villaggio
volge al termine e la donzelletta se ne torna in campagna, anzi, in città.
Un sapore dolceamaro accompagna il mio
ingresso in questo nuovo autunno. Ma c’è una promessa che mi tiene ancorata
a quel passato da cui proprio non voglio staccarmi ma che mi proietta anche in
quel futuro che proprio non voglio vedere. Ritrovarsi
ancora. Almeno una volta al mese.