Il pregiudizio consuma l’anima. Un po’ come l’invidia. Non c’è soluzione, è uno stato di natura che non può essere sradicato. Ce l’hai dentro. Può essere nel DNA. Può dipendere dall’imprinting, dal contesto sociale, dal sistema educativo. Un eterno confronto con ciò che non si possiede e che si vorrebbe possedere. Un eterno giudizio nei confronti di qualcuno o di qualcosa. Qualcosa che sembra ma non è. La via più semplice è quella del giudicare. La via meno tortuosa è quella del fermarsi in superficie.
In prima elementare
ero una bambina giudicata molto
intelligente ma con un forte
handicap sociale. Non ero una bambina comune e avevo difficoltà a legare
con gli altri compagni. Avevo due sole amichette. Prima Isabella e poi Elena. Mi annoiavo e avevo sempre mal di testa.
La mia vicina di casa, Emanuela di due anni più grande di me, mi aveva
insegnato a leggere e scrivere a tre anni. La
mia mente, all’epoca, assorbiva qualsiasi informazione. E mia mamma mi
sorprendeva a fare riassunti scritti del “Topolino”. A tre anni.
In seconda elementare il
mio cervello spugnoso è tornato alla normalità fino a regredire. Anno per
anno. Il solleone estivo mi aveva
bruciato i neuroni oltre che la pelle. E il surriscaldamento del pianeta, il
buco dell’ozono e l’effetto serra hanno peggiorato la situazione. Ma il mio “animale sociale” ne ha tratto
giovamento. Ero una bambina come tutti
gli altri. Sono una bambina grande come tutti gli altri bambini grandi.
Al liceo ero una
ragazzina giudicata molto stupida ma
carina. Una di quelle ochette bionde
tinte e senza cervello. Lo confesso, avevo
fatto il “Cristal Soleil” e usavo la camomilla sui capelli. E la mia
personalità era in formazione. Stavo iniziando a sviluppare consapevolezza che, ahimè, è arrivata
molto presto. La leopardiana età delle
illusioni per me è durata poco. Troppo poco. Ed è stato allora che ho
capito immediatamente che mi conveniva
far credere agli altri quello che volevano credere. Era più semplice.
Inutile perdere tempo a dimostrare al mondo il contrario. Non ne valeva la
pena.
Poi ci sono stati gli anni dell’università, la pallavolo, la
discoteca fino alle 5 del mattino, gli amici, le bevute, le feste, le
primavere, le estati, gli autunni e gli inverni. Ero diventata un perfetto animale sociale e la mia intelligenza era
un lontanissimo ricordo, un guizzo estemporaneo di una treenne vivace. Era finita, probabilmente, nelle scarpe
super cool che compravo. Dormire tre ore a notte era la norma. Si viveva a mille. Non esistevano
responsabilità, decisioni da prendere, strade intricate, problemi. Bastava solo
divertirsi. L’autoaffermazione non era fondamentale. Vagavi. In una dimensione eterea. Come in un limbo sospeso tra terra e cielo.
Quel limbo però, non
era una condizione reale. Non c’erano poeti vissuti prima dell’anno zero.
Non c’erano bambini non battezzati. Caron
dimonio, con occhi di bragia, ti aveva già traghettato sull’altra riva del
fiume Acheronte. E il limbo non era la
tua eterna dimora.
Il confronto con la
vita adulta non è stato difficile. Ci sono scivolata dentro preparata. La
bronzea corazza era solida. Le armi anche. Una sera, a casa di alcuni amici in
cui c’erano altri amici, si parlava di
cinema. Era appena uscito nelle sale il Kolossal americano “Troy” di cui ricordo una romanzesca
trasposizione dell’Iliade di omerica impronta e un Brad Pitt da svenimento. E proprio sul personaggio che interpretava
Brad Pitt ci si è soffermati. Avrei preferito di gran lunga disquisire
sull’ileo-psoas Pittiano che si intravede nella scena dell’amplesso tra Achille
e Briseide. Invece no, la conversazione era più aulica, il tema scelto era la discendenza di Achille. Di chi era figlio?
Non ho saputo trattenermi, mi è proprio sfuggito dalle labbra nonostante il mio
training quotidiano sul low profile. Ho risposto d’istinto: Teti e Peleo! Mi sono subito resa conto
che qualcosa stonava. Ho abbassato gli occhi, rossa in volto. La padrona di
casa mi ha guardata come fossi un marziano, “E tu come lo sai? Hai visto il film ieri sera?”. Ho fatto un gran
sorriso e mi sono rilassata. Il mio
segreto era al sicuro, nonostante tutto, non mi ero svelata. “Certo, ho
visto il film proprio ieri”.
La padrona di casa
aveva un pregiudizio. Per lei ero solo una pallavolista ignorante che aveva
vinto alla lotteria sposando un avvocato. E che si trovava per puro caso nella
sua lussuosa dimora con tanto di servitù. La
Brooke Logan della vallata. La cameriera arrampicatrice che aveva
accalappiato Ridge Forrester, il
rampollo della Forrester Creations. E la Brooke Logan della vallata, senza fare
una piega, le ha lasciato credere che fosse veramente così.
Veniamo al titolo del post. La profezia auto avverantesi. Quando
un pregiudizio è talmente radicato è impossibile eliminarlo. Spesso ci si
concede l’opportunità di cambiare idea disattendendo l’impressione iniziale.
Credendo di poter andare oltre il contenitore. Ma non è mai così. E la risposta
è sempre la stessa: “visto, lo sapevo da subito, si è solo rilevato essere ciò
che già pensavo da tempo, ho dato un’altra possibilità ma la prima impressione
è quella che conta!”. E la profezia, magicamente,
si è avverata.
Ciao Ale. Che bello leggerti!
RispondiEliminaProbabilmente ci siamo conosciuti in quella fase della vita che va dalla 29esima alla 37esima riga di questa splendida narrazione. Curioso vedere come, con lo "spunto" della profezia autoavverantesi, hai raccontato in maniera così diretta ma divertita il tuo percorso.
E' stato come ritrovare un libro che una volta avevi preso per mano, con tutte le buone volontà, tra cui la più importante è ovviamente quello di terminarlo, senza riuscirvi.
Adesso questo libro è stato ripreso in mano dall'autore che, per usare una bella frase di Carol Woytila, ne sta facendo "un autentico e inimitabile capolavoro"
Un caro abbraccio
VB
Vitto caro, che bello che tu mi abbia non solo letto, ma anche scritto!!! La fase della vita che va dalla 29esima alla 37esima riga è stata una delle più belle e che ricordo con infinita leggerezza e gioia.Ti mando un abbraccio forte anch'io e spero tu stia bene. Ale
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