venerdì 8 novembre 2013

...ma guarda e passa...


Allora, visto che qualcuno sembra aver gradito e visto che ci ho preso gusto, adesso vi beccate pure il canto III dell’Inferno e, soprattutto, la rivelazione di una delle più celebri citazioni “fake” della Divina Commedia. Per buona pace del mio stomaco delicato.

Il canto III è quello dove c’è la porta dell’Inferno e quell’anafora martellante che la accompagna:

“PER ME SI VA NE LA CITTA’ DOLENTE
PER ME SI VA NE L’ETTERNO DOLORE
PER ME SI VA TRA LA PERDUTA GENTE”

Mio suocero, quasi ottantenne, recita ancora a memoria e con malcelato orgoglio le tre terzine che riportano i nove versi scritti sopra la porta infernale. E quando gli faccio la parafrasi al volo e gli spiego le figure retoriche si illumina in uno sguardo d’ammirazione per quella nuora un po’ cretina che si è imparata la lezioncina per fare colpo su lui.

Nel vestibolo dell’Inferno soggiornano gli Ignavi, coloro che per viltà non seppero operare il bene ma che non sono neppure dannati per non avere commesso nefandezze tali da meritare l’Inferno vero e proprio. Parafrasando, gli ignavi sono le banderuole, quelli che nella vita non prendono mai una posizione e che vanno dove tira il vento e dove a loro più conviene. Ne conosco tanti. Il contrappasso è esemplare: corrono senza sosta dietro ad un’insegna e sono punti continuamente da fastidiosi insetti che rigano di sangue il loro volto. Sangue che, misto a lacrime, nutre una schiera di vermi ai loro piedi. Disgusto vero. Meno male che ho consumato un light lunch.

Tra gli ignavi famosi c’è “colui che fece per viltade il gran rifiuto” tornato in auge l’11 febbraio del 2013 dopo le dimissioni di Papa Benedetto XVI. Il rifiutante in questione è - come ben saprete dopo il bombardamento mediatico della rinuncia di Ratzinger - Papa Celestino V che, abdicando perché non si riteneva all’altezza del ruolo, aprì la strada alla contestata elezione di quel celeberrimo Bonifacio VIII, punito a testa in giù nel canto dei simoniaci, il XIX, e responsabile, secondo Dante, della sua rovina e di quella di Firenze.

Il canto III è anche quello di “Caron dimonio, con occhi di bragia”, figlio dell’Erebo e della Notte, di professione traghettatore infernale. Ma, come dicevo in incipit, è soprattutto il canto di una delle più celebri citazioni “fake” della Divina Commedia.

Quante volte avete sentito citare – alla pene di cane – “Non ti curar di lor ma guarda e passa”, emessa con voce sicura da chi crede di proferire una frase colta per manifestare la propria superiorità. Ad esempio, due ragazze discretamente gnocche passeggiano per il quadrilatero milanese a caccia d’affari. In quella passano due ragazze più bruttine e sicuramente meno evidenti che commentano ad alta voce, pronunciando epiteti non troppo complimentosi nei confronti delle due bellone. Le bellone, invece che replicare, che fa tanto tamarro, tirano i dritto e si guardano compiaciute strizzandosi l’occhio e dicendosi vicendevolmente nonticurardilormaguardaepassa con tanto di pacca sulla spalla e sorriso di soddisfazione. Ecco che sale il rigurgito nonostante il light lunch.

I versi 49-51 del canto III dell’Inferno recitano esattamente:

“Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa”.

Non ragioniam di lor. Non ragioniam di lor. Ma guarda a passa. Virgilio sta spiegando a Dante chi siano gli ignavi, quale sia la loro pena e perché i loro lamenti e le loro grida siano così intensi. La storpiatura in non ti curar di lor è ormai, ahimè, entrata a far parte del linguaggio comune. Un po’ come l’imperfetto al posto del congiuntivo. Ormai non ci si scandalizza più a sentire “credevo che era”.

Sto per perdere i sensi come Dante nella chiusa del canto. Stiamo per guadare l’Acheronte, pur non essendo anime prave, “Caron, non ti crucciare: vuolsi così cola dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare”. Non ragioniam di lor.