mercoledì 3 ottobre 2018

Cuori puliti




Madrid, 2018. Vent’anni dopo.

Ci eravamo lasciate alla soglia del quarto di secolo. Senza mai lasciarci, in verità. Ognuna ha sempre tenuto d’occhio le vicende di vita delle altre. Ci sono i social. Ci sono i compleanni. Gli amici comuni che ogni tanto si incontrano.

Ci eravamo lasciate alla soglia dell’inizio delle nostre vite da adulte. Senza mai lasciarci, in verità. Ognuna ha preso la sua direzione raggiungendo quegli obiettivi, figli di vecchi retaggi. O di ambizioni. O di cammini già tracciati e inevitabili.

Eravamo donne, in fase embrionale. E in quell’embrione c‘era già tutto il patrimonio di quello che saremmo diventate. Vent’anni dopo.

Laura era la mia migliore amica del liceo. La compagna di banco e di mille avventure. La compagna dell’adolescenza. Laura era l’amica ideale, per una come me. Messa su un piedistallo senza averlo chiesto. Tenere alto il prezzo della “fama”. Alzare l’asticella fino al record del mondo. Laura era la parte sana di me. Credo di avere ancora, da qualche parte, conservato come fosse una santa reliquia, un bigliettino che mi aveva scritto. Mi comunicava - scrivendomelo perché era più facile che dirmelo - che grazie a me era riuscita a uscire dal suo guscio. E io mi rifugiavo in questo cuore pulito, completamente privo di quella tonalità di verde invidia che in quel momento sembrava essere un male pandemico.

Elena era la mia migliore amica della squadra di pallavolo. Bella e selvatica. Un diamante grezzo. Elena si portava dentro un tormento irrisolto, un cuore sanguinante. Aveva solo 15 anni ma in fondo ai quei suoi occhi scuri si leggeva malinconia. Ma lei, splendida e forte, cercava di esorcizzare vivendo con leggerezza. Urlando al mondo la sua libertà. Ci leghiamo empaticamente. Ci conosciamo da sempre senza conoscerci. Veleggiamo insieme, mano nella mano, verso l’indipendenza. Verso l’affrancarsi da qualcosa che neppure noi riusciamo a determinare con certezza assoluta. Viviamo la nostra adolescenza come due quindicenni in cerca di vita. Abbiamo bisogno di abbeverarci di quella vita.

Silvia non era la mia migliore amica. Una ragazza carina con lo sguardo vivace e un sorriso bellissimo. Era al liceo, in classe con una delle mie storiche amiche, la Francesca Cicardi. Abbiamo avuto un fidanzatino in comune. E qualche anno dopo abbiamo avuto un altro fidanzato in comune che ha generato, pur arbitrariamente, un problema di rivalità. Neppure troppo velata. Silvia era la migliore amica di Elena e tutte e due – dopo che Elena ha fatto ritorno nella squadra d’origine -  giocavano a pallavolo con Laura. Il cerchio si chiude.

Pur non perdendoci mai ci si è perse. Poi Laura si sposa. A 43 anni e dopo un figlio, Riccardo, la decisione di celebrare, secondo tutte le regole della tradizione, il matrimonio.

E in una sonnecchiosa giornata di fine maggio, quando le fatiche dell’anno scolastico dei figli, le tossi, il mocciolo al naso e le mamme moleste, volgono al termine, Elena crea un gruppo su whattsapp, il male pandemico del nuovo secolo. “Addio al nubilato Lalla”. Ci propone un week-end insieme, butta lì una data, qualche meta papabile. E’ la metà di agosto quando il piano prende forma. Si prendono i biglietti aerei, si prenota l’albergo. Primo fine settimana di settembre. Madrid.

Ed è quando ci ritroviamo, pronte per partire, che scatta la magia. Il tempo non è passato. Siamo di nuovo noi quattro, poco più che ventenni, con gli stessi occhi, con lo stesso sorriso spensierato. Laura è più consapevole di sé stessa ma il suo cuore è sempre pulito. Si è appena macchiato di vita. Elena porta dentro di sé un dolore ancora più grande. Il suo cuore ha smesso di sanguinare ma la cicatrice fa male. Eppure la sua gioia di vivere vince su tutto. La vera sorpresa è Silvia. Il suo essere donna ha cementato la sua personalità e ha capito che non siamo mai state rivali. Siamo molto simili. E abbiamo, indubbiamente, gli stessi gusti, cinquecentocabriocompresa.

Nello scorrere naturale delle ore tutto è spontaneo e familiare. Si dorme tutte in camera insieme, si chiacchiera fino a notte fonda, si ride. Si ride. Si ride. Tutto torna leggero, all’attimo prima che la consapevolezza ci investisse. Ma la diga crolla durante lo spettacolo di flamenco. Il pathos è straordinario e i tacchi dei ballerini rimbombano in gola. E io sono lì, nella penombra del locale, dove si stanno gridando sentimenti in spagnolo cantato. E’ il mio cuore a gridare. Quel mio cuore sporco di vita, di esperienza, di compromesso. Inizio a piangere e non smetto fino alla fine. Come se quelle lacrime avessero ripulito la mia anima riportandola alla purezza dei vent’anni.

Poi il sabato del villaggio volge al termine e la donzelletta se ne torna in campagna, anzi, in città. Un sapore dolceamaro accompagna il mio ingresso in questo nuovo autunno. Ma c’è una promessa che mi tiene ancorata a quel passato da cui proprio non voglio staccarmi ma che mi proietta anche in quel futuro che proprio non voglio vedere. Ritrovarsi ancora. Almeno una volta al mese.




martedì 15 novembre 2016

Rucoline da russa



Succede che tra simili ci si aggreghi. Che poi forse neanche tanto simili. Se si parlasse di maschi direi feromone. Ma si parla di femmine, anzi, di mamme, quindi direi empatia. O alchimia. Si, insomma, quella cosa lì. Costanza Alma Teresa Toniatti, detta Connie, ha fatto il suo debutto in società, va all’asilo. Ci va insieme ai suoi amichetti del corso preparto, Ludovico e Matteo. Poi ci sono Eugenio ed Enrico, compagni del nido. E pure l’Aurora Zanotti, la sua gemellina, nata qualche minuto dopo di lei. Tra gli altri, la vera new entry è Giacomo di cui Costanza Alma Teresa Toniatti detta Connie è pure un po’ innamorata. Anche se in realtà, proprio oggi, continua con il tormentone Ludovicoseiilmioprincipemiportialballo? Colpa di Cenerentola.

Qualche anno fa, quando mi capitava di vedere fuori da qualche asilo quattro mamme che chiacchieravano allegramente di lavoretti e di attività pomeridiane mi venivano i brividi. I brividi si sono poi trasformati in conati di vomito quando per caso andavo a prendere mia nipote Carolina all’asilo. Conati talmente forti da provocare una fortissima idiosincrasia verso i marmocchi. Quel tipo di idiosincrasia che credo abbiano le mie sorelle minori Sara e Paola dopo aver passato qualche mezz’ora con le tre nipoti. Poi è arrivata la gravidanza e i conati di vomito sono diventati effettivi. Cosi come effettivi sono diventati anche i punti dell’episiotomia, le ragadi, la mastite, la supercazzola e tutte quelle robe lì.

Si arriva quindi all’asilo, privato e cattolico, per giunta. E io mi ci trovo in mezzo. Tra quelle quattro mamme che portano i figli nella scuola privata del centro con il Suv. Anzi, addirittura con il taxi. E, udite udite, sono pure la rappresentante di classe. E come no? Un destino già segnato. Da rappresentante d’istituto al liceo al capitano della squadra di pallavolo. Una storia che si ripete. Vabbè. Il tutto per dire che non lo avrei mai creduto possibile. Non di fare la rappresentante. Ma di portare mia figlia alla scuola privata in centro con il Suv e le scarpe firmate. Ommioddio.

Ma veniamo alle scarpe firmate. Quasi tutte le mamme della scuola dove va costanzaalmateresatoniattidettaconnie calzano le Stan Smith. Rigorosamente bianche e verdi. Con il maxicoat, ovviamente. Il marchio di fabbrica dei bambini è la candelina al naso. Quello delle mamme le Stan Smith bianche e verdi ai piedi. E poi ci sono le Rucoline. Da russa. E che non me ne abbiano le russe. Una delle quattro mamme con cui c’è empatia, alchimia, chimica, insomma quella roba lì, si chiama Giorgia. In realtà sua figlia, Mariavittoria detta Mavi, fa la prima asilo, i nostri vanno ancora alla primavera. Però è amica della mamma di Giacomo, il bimbo di cui Connie è un po’ innamorata. Quindi, per riassumere, ogni giorno, dopo aver mollato i bimbi ci beviamo un caffè macchiato con zucchero di canna, la Giorgia, la Brandi la Lucilla la Pasqua e io.

Giorgia è una mamma giovane e super chic. Una di quelle gnocche naturali che anche senza trucco, in tuta e sneakers e con il berretto di lana in testa è super top. Chissà quando si agghinda. Ha un solo difetto, sulla carta. Le Rucoline. Eppure lavora nella moda, perbacco. Si giustifica dicendo che sono comode e blablabla. Però ha le Rucoline. Da russa. E chissà se anche Giorgia, prima di avere Mavi, aveva i conati di vomito quando vedeva altre mamme fuori dagli asili a discorrere di vasini e di riduttori.

Ma veniamo al punto, scarpe firmate a parte. La riflessione è proprio sull’alchimia fra le mamme. Avremmo mai fatto amicizia se non fossimo state legate dai bambini? Eravamo così tanto diverse prima di avere dei figli? Che cos’è che ci ha cambiate veramente? L’essere diventate adulte e responsabili o l’essere diventate madri? Stop. Mi sembro Carrie Bradshaw nelle prime puntate di Sex and the city. Riccia e con il nasone. Ma con scarpe firmate.

lunedì 31 ottobre 2016

Quando le scarpe ti stanno strette anche se sono del tuo numero




Venerdì sera pre lungo ponte, ore 21. Invece che essere galvanizzata sono in ansia. Eppure il venerdì sera è sempre stato il mio momento preferito. Sono appena rientrata da 5 giorni londinesi lontana da figlia, marito e tata. Quando riassapori la libertà, il ritorno alla realtà è uno shock. Riuscire a cagare per 5 minuti di fila senza che nessuno entri in bagno con te dicendo pure mammachepuzza era un lusso che avevo rimosso.

Guardo un film con Drew Barrymore, svogliatamente. La iena sta dormendo, mio marito, “stranamente”, non c’è. Intanto chatto con la mia nuova amica Brandi, la mamma di un bimbo che va a scuola con la iena. Stasera ho il mood malinconico, mi chiede perché, le dico che ho le scarpe troppo strette anche se sono del mio numero.

In effetti dopo la gravidanza mi è cresciuto il piede di mezzo numero. Così ho avuto la scusa di poter cambiare tutta la scarpiera. Tranne le Manolo Blahnik e le Louboutin. I pezzi vanno conservati a prescindere. Ah, ho anche cambiato tutto il guardaroba perchè mi si è allargato il torace. E poi ho 41 anni e, come qualcuno mi ha fatto simpaticamente notare, mi sono imborghesita e, attenzione, ripulita. Tra i denti mi ha anche dato della mantenuta ma sorvoliamo. E’ pur sempre vero no? E da buona ripulitamantenutaimborghesita sono stata costretta a cambiare guardaroba. Mica posso vestirmi sempre da ragazzina o come una stracciona.

Puoi togliere la ragazza da Rho ma non Rho dalla ragazza. E’ un detto che è stato adattato. Credo che in origine ci fosse il Bronx o qualche quartiere periferico londinese. Ecco. Il punto è che la ragazza da Rho è stata tolta. Ma Rho dalla ragazza no. Io rimango io. Vado a farmi le unghie e il colore dal parrucchiere. Ma la sostanza non cambia. Non è perché vivo nel centro di Milano e ho sposato un avvocato che può far di me una “ripulita”.

Anyway, non si stava parlando di alta borghesia milanese ma di scarpe troppo strette. Che, tradotto, vuole dire che quando si ha una vita fortunata e senza reali problemi, i problemi si devono creare. E’ sostanzialmente un fatto legato alla leopardiana teoria del piacere. Cioè, il concetto è proprio quello della teoria del piacere, traslato sulle scarpe troppo strette.

E’ il 1820 quando il buon vecchio Giacomo, in quel di Recanati, elabora la teoria del piacere. Senza dilungarmi in pedanti disquisizioni filosofico letterarie la spiego in due parole. Quelle due parole che durante gli anni alla facoltà di lettere mi permettevano di memorizzare velocemente il concetto. Me l’ero immaginata più o meno così: il cielo tende una corda con una specie di asola invitando ad afferrarla. Più ci si affanna meno si riesce a prenderla. Il desiderio è illimitato e il piacere che si ricerca è, di conseguenza, infinito. Ma non può essere soddisfatto perché l’asola è inafferrabile. Si cerca quindi rifugio nell’immaginazione che però, scemata l’età dell’illusione, è talmente debole da non esistere più.

Gli anni alla facoltà di lettere erano anche gli anni dell’illusione. Quando le scarpe erano ancora abbondantemente larghe. Ora è diventato assolutamente impossibile rifugiarsi nell’immaginazione. Quello che vale ora è solo la fuga. Una fuga vera a gambe levate, non una fuga nel magico mondo della fantasia. Quanto sarebbe facile. Quanto sarebbe liberatorio.

La iena ha la faringotonsillite acuta con tanto di placche purulente in tutta la gola. Ecco perché venerdi sera pre lungo ponte, ore 21 avevo l’ansia. Ah, ha pure un fortissimo acetone ed è quindi a rischio vomito antibiotico. Un disastro. E come tutti i bimbi malati è accozzata a me, giorno e notte, appesa alla gamba e al collo, con quella nenia lamentosa continua. E io non riesco a respirare. Altro che scarpe strette, è come se quell’asola tesa del cielo mi stesse strozzando. E allora prendo l’ipad e medito la fuga. Guardo i voli per Alghero, teatro di meravigliosi ricordi sturm und drang. Guardo le case a Tenerife. Cerco qualche amica per uscire a pranzo. O a cena. Voglio solo scappare lontano, Respirare aria depurata dallo streptococco. Cazzo di streptococco.

Poi però mi arrendo a quegli occhietti cerchiati e violacei. A quel musetto triste. A quel corpicino vivacissimo senza energia. Scappo, si. Ma in farmacia a comprare antibiotico e fermenti. Coca Cola e Biochetase. Grissini e banane. Si, mi arrendo. Le scarpe sono un po’ strette ma i piedi non fanno più male.

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.


lunedì 5 settembre 2016

Ferragosto alternativo



Il 15 di agosto è un po’ come fosse il Capodanno estivo. Un 31 dicembre caldo. Per quelli che vivono in questo emisfero. Anzi no. Forse è un po’ più come fosse l’8 dicembre. Sempre di Madonna trattasi. Senza essere blasfemi. Che poi io, un 8 dicembre di 10 anni fa, mi sono pure sposata. Comunque, facciamo che il 15 di agosto sia l’8 dicembre estivo, quindi, in definitiva, un giorno da festeggiare. Per tradizione di solito si celebra con pranzi che neanche Pantagruele e Gargantua insieme, con gite fuori porta e come “un giorno di ferie”.

Il 15 di agosto del 2016 lo abbiamo festeggiato su, nella verdeggiante e fresca Valle di Ledro. Località Pur. Una bella giornata di sole a incorniciare il lago immacolato e straordinariamente pulito. Quasi da bere. Un risveglio lento, lazzarone, poco propenso al fare. Qualche timida iniziativa, qualche proposta, un pic nic, la solita polenta su al fienile, un barbecue. Dopo esserci riuniti in consiglio decidiamo per il ferragosto alternativo. Un po’ come andare a letto prima della mezzanotte a capodanno. O a stare a casa l’8 dicembre, anche se siccome a Milano il 7 è Sant’ Ambrogio, c’è il ponte.

Un pranzetto frugale, i soliti 5, l’avvocato mio marito, io e Connie più i residenti estivi fissi Sergio Pedrazzini e Jessica, la Regina del Burraco. Nessun altro. Nessuno dei 250 parenti che abbiamo, nessuno dei  4000 amici che abbiamo. Nessuno dei 602 nipoti che abbiamo. Nessuno. Dopo la nanna di Connie e, naturalmente, una partita a burraco, la lazzaronite acuta cala e il nostro ferragosto alternativo diventa più attivo: un giro in pedalò fino a Mezzolago, un pesce d’asporto e via, sempre tra di noi, una light dinner.

Si parte. La Regina del burraco e Pedrazzini si offrono di pedalare. L’avvocato mio marito fa la traversata a nuoto. Io placco Connie per tutto il tragitto. Scalmanata com’è è un attimo che finisca nel lago. Che proprio caldissimo non è. Da qualcuno avrà pur preso.

Tutto bene, l’avvocato mio marito arriva tra gli applausi che fioccano dalle finestre dell’albergo Mezzolago con l’ovazione dei turisti che hanno seguito l’impresa olimpica nuoto libero pontile di Pur-Mezzolago. Che poi saranno si e no 500 metri. Connie è rimasta abbastanza ferma e quindi io non sono sudatissima. La gamba ciclistica dei ragazzi ha retto. Scendiamo sul pontile di attracco e andiamo a ordinare il pesce. Di lago. Slurp.

La trota salmonata affumicata arriva subito. La sistemiamo in un vano del pedalò e siamo pronti a ripartire. Vorrei tanto uno spritz, così, giusto per gradire, ma l’ovazione riservata poco prima all’avvocato mio marito risveglia in me quello spirito di competizione da tempo sopito. Insieme all’egocentrismo e all’abitudine a stare sotto i riflettori. Devo fare la traversata a nuoto. Tolgo t-shirt e pantaloncini e mi tuffo. Si sente un “ooooooohhhhhh”. Ho un brivido. Più per l’eccitazione che per il contatto con l’acqua freddissima. Mi stanno guardando tutti. Inforco gli occhialini e parto a bomba. Se mi viene un crampo ho il pedalò di fianco, sono serena.

Inizio a macinare bracciate. Guardo indietro. Sono sempre tutti lì a guardarmi. L’acqua del lago però è pesante, io sono fuori forma e non riesco a spezzare il fiato. Proseguo, forte di tutta l’aspettativa sulla mia traversata. Mi fermo un attimo, prendo fiato. I polmoni cominciano a bruciare forte, il ginocchio malandato pulsa, le braccia iniziano a cedere, sono paonazza. Rallento il ritmo ma proseguo. Dal pedalò gesticolano, alzo il pollice in segno di “va tutto bene”, bevo, annaspando, senza che se ne accorgano.  E meno male che l’acqua è pulita, quasi da bere. In realtà gesticolano per farmi salire, devono aver avvistato in lontananza qualcosa o qualcuno sul nostro pontile. Grata di avere il pretesto salgo, stralunata, sul pedalò. Mi lamento per essere stata interrotta, mancava davvero poco. Ma in realtà sono sfinita, mi gira la testa e faccio fatica a respirare. Mi stendo, fingendo di essere contrariata. E non mi giro più, ho deluso il mio pubblico nutrito, quattro ottantenni inglesi o tedeschi in vacanza relax sul lago.

L’avvocato mio marito sta facendo il grosso perché da lontano ha visto qualcuno che sta tirando sassi dal nostro pontile. Sembrano ragazzini.
Adesso vado lì e gliene dico quattro, vandali”, “E’ ora di finirla”, “Qualcuno deve dare una regolata a questi ragazzetti maleducati”.
Sale l’adrenalina. L’avvocato mio marito di solito è uno quieto. La tamarra, in famiglia, sono io. Siamo tutti in attesa della sfuriata epocale. Il natante si avvicina al pontile a grandi pedalate e le figure si fanno sempre più nitide. Sono un uomo e un ragazzino. Sono scesi  dal sentiero per il pontile con due mountain bike.

L’avvocato mio marito cambia espressione, il monociglio si ammorbidisce, la mascella è meno serrata. Osserviamo, attenti. Perfino Connie è zitta. Un evento unico.  I prodi pedalatori prendono la via di casa e iniziano a salire dal sentiero con il piatto di trota salmonata. Io chiudo la fila con Connie. L’avvocato è lì, titubante, siamo tutti in attesa.
“Hi”, saluta, cordiale.
Where are you from?”.
Sono padre e figlio, il padre sulla cinquantina, il figlio appena adolescente. Sono tedeschi di Stoccarda, hanno lasciato la macchina a Innsbruck e da lì hanno proseguito in bici. La conversazione prosegue e poi, avendo già capito che piega avrebbe preso il tutto sento:
“Is your platform? Can we sleep here tonight?”
Ovviamente so già la risposta.
“I have a flat and something to eat. It’s free”.
Sto già pensando a come porzionare la trota salmonata. E se ho dell’aglio e degli spaghetti d’emergenza. Il ragazzino avrà più o meno 15 anni, sarà affamato. E poi hanno fatto chissà quanti chilometri in bici. E poi penso in quale diavolo di armadio ho delle lenzuola di scorta. E gli asciugamani?


La pasta aglio, olio e peperoncino è in tavola tre quarti d’ora dopo. Loro arrivano, freschi di doccia, si chiamano Dominic e Thomas. Dominic è il ragazzino. Mia figlia si prende una cotta per lui, ha 14 anni. Andiamo bene. Se questo è l’andazzo auguri. Da qualcuno avrà pur preso. Porco schifo. Apriamo pure l’amarone, bottiglia magnum. Dopotutto è ferragosto no? E’ il giusto contrappasso per aver voluto fare gli alternativi. 

La serata è piacevole, mangiamo quello che c’è, beviamo il mio vino rosso preferito, parliamo inglese. Mia figlia lecca Dominic sul braccio ma fa niente, suvvia, l’amarone ha 14 gradi. Jessica e io rigoverniamo, giochiamo a burraco e andiamo a letto. Non riesco a prendere sonno. Non è il caldo, non è la leccata malandrina di una bambina di due anni a un adolescente, non è nemmeno l’aglio. E’ il pensiero che l’8 dicembre mi troverò in casa tutti i senzatetto dell’opera di San Francesco. Cin Cin.

sabato 3 settembre 2016

Burraco Mania



“Ho più pinelle che pensieri”, recita un post, di mia sorella Paola, detta Piol, sulla mia pagina di facebook. Mia mamma – il genio – e io, tornate dalla lunga permanenza estiva nel sud della Sardegna, l’abbiamo iniziata al Burraco. La vera droga del secolo. In confronto la cocaina è zucchero. Di canna.

La spacciatrice numero uno è mia suocera. Una maestra. Di burraco e delle elementari. Qualche anno fa ci aveva già provato a insegnarmi il burraco. Ma il terreno non era fertile e il virgulto non ha attecchito. La piantagione della vera droga del secolo è quindi rimasta incolta e allo stato brado e la maestra, mia suocera, poteva disporre della sua sola dose. Ad uso personale.

Nella lunga permanenza estiva nel Sud della Sardegna il virgulto ha iniziato a fiorire. Il potere della droga si è diffuso rapidamente iniziando a mietere le sue vittime. Mia madre, la tata Ju Ju, mia cognata. Io ho resistito, per quanto possibile. Leggevo e poi mi ritiravo nelle mie stanze, guardando con sdegno quelle povere derelitte affette da una dipendenza incontrollabile. Giocavano fino a notte inoltrata, senza sosta, con gli occhi iniettati di sangue.

E poi è arrivato il giorno della mia iniziazione. Avevo finito i libri, mi sentivo sola, un po’ di debolezza e ho ceduto alla prima sniffata di burraco. Inebriante. Il pozzetto da 18 carte era un surplus di droga davvero invitante. Come resistere? Il genio, tata Ju Ju e io. Tre drogate in crisi d’astinenza in attesa di mettere a letto la piccola Connie per poter placare il nostro disagio. In cerca di qualsiasi scusa – vento, brutto tempo, premio, supercazzola – per piazzare Connie davanti a un film Disney e giocare a Burraco. Una malattia.

E poi è arrivato il giorno della partenza. Alla spicciolata. Prima il genio. Poi io. Subito dopo la tata Ju Ju. Nella settimana milanese di sosta, tra il sud del Sardegna e la Valle di Ledro, abbiamo giocato come forsennate. Mia mamma e io rinunciavamo alle consuete attività quotidiane nella pausa sonno di Connie. Ju Ju rinunciava alla sua, di pausa sonno. Nel frattempo abbiamo iniettato la prima dose a mia sorella Paola, detta Piol. E creato un mostro. Ma poi il mostro è partito per il suo viaggio on the road direzione eolie, e noi ci siamo perse una ricca consumatrice. Urgeva trovare altri adepti. Subito. Anche perché se giochi in due non c’è il pozzetto da 18.

E poi è arrivata lei, la Regina del Burraco.
Jessica Vanelli
36 anni
Riccia
Bionda
Fidanzata di Sergio Pedrazzini
Residenza estiva: Pur, Valle di ledro, residence panorama

Il trio del Burraco si era finalmente ricomposto. Il pozzetto da 18 era salvo, insieme agli spritz carichi e immacolati. Un minuto esatto dopo aver messo a letto Connie partiva la bisca. E il pozzetto da 18 era quasi sempre suo, JessicaVanelli36anniricciabiodafidanzatadisergiopedrazziniresidenzaestivapurvaldiledroresidencepanorama

E poi è arrivato di nuovo il momento del distacco. Il genio è partito con il pozzetto da 18. Abbiamo ricominciato a giocare in due, senza sosta, fino all’arrivo, per l’ultimo week-end di agosto, di mia sorella Paola, detta Piol. E sono aumentati gli spritz, carichi e immacolati, e, naturalmente, il pozzetto da 18.

E poi, l’’estate sta finendo, e un anno se ne va. La stagione del Burraco volge al termine. Io sono a disintossicarmi al Forte, c’è il matrimonio di una mia amica. E’ l’occasione per distrarsi. Bevo uno spritz, per non soffrire troppo. E per non perdere l’abitudine. Vedo un mazzo di carte languido, adagiato su un comodino. Una morsa allo stomaco. Passo oltre.

E poi arriva una foto su whattsapp. Il genio e mia sorella Paola, detta Piol, stanno andando a Stoccolma per il week-end a raggiungere mia sorella Sara, detta Scrunch, lì per lavoro. Sono in aereo e stanno giocando a burraco. Hanno comprato le carte in aeroporto. 

Mi viene una crisi isterica, ho la bava alla bocca e un travaso di bile per l’invidia. Scrivo a JessicaVanelli36anniricciabiodafidanzatadisergiopedrazziniresidenzaestivapurvaldiledroresidencepanorama, devo condividere il dolore. E lei, empatica, con gli stessi crampi di astinenza, allevia la mia pena.

L’unica consolazione è che le mie parenti, che in questo momento sono allo spaccio di ACNE, mi portino qualcosa. Ecco. Porca Pinella. Che la stagione del burraco non abbia fine.



lunedì 7 marzo 2016

La ceretta all’inguine



Ecco. Mi rendo conto che il titolo del post non sia proprio accattivante. Almeno non per una parte di lettori. Ma mi sono occupata per tutto il giorno, insieme alla mia vecchia amica e compagna di squadra, ora fiscalista, di editare la Guida Fiscale del 730. Quindi i casi sono due: o accendo la tele e guardo l’Isola dei famosi, che però inizia mercoledì, o parlo di ceretta all’inguine. Annullare il cervello, a fine giornata, è l’unica soluzione possibile.

La ceretta all’inguine è una delle cose più terribilmente dolorose in natura. Seconda solo al parto, anzi, rettifico, il parto, se fai l’epidurale, non è così agghiacciante. Seconda solo a quando spacchi il legamento crociato del ginocchio e sbricioli i due menischi. Il dolore è allucinante. Più del parto. Con epidurale naturalmente. E della ceretta all’inguine. Appena fuori dal podio, ma lì lì e a parimerito, ci sono il mal di denti, il mal di testa quando sei incinta e puoi prendere solo la tachipirina, le coliche addominali quando sei incinta e puoi prendere solo la tachipirina, il torcicollo. Sia quando sei incinta e puoi prendere solo la tachipirina sia quando ti viene e basta.
Dal quinto al decimo posto, in ordine sparso, ci sono il gomito sbattuto su uno spigolo o il mignolo del piede sulla gamba del tavolo, quel tipo di dolore che senti dai due ai tre secondi dopo. Tua figlia che ti dà inavvertitamente una testata. O che ti tira i capelli. Non troppo inavvertitamente. La lezione di pilates quando non hai più addominali. Il virus intestinale e le sue varianti stagionali. La pipì quando ti scappa fortissimo e non puoi farla. E il tunnel carpale quando per lavoro devi fare una cricetata assurda e non stacchi mai la mano dal mouse.

La ceretta all’inguine, però, merita uno spazio tutto suo. Talmente dolorosa che rimandi il più possibile l’odiato momento in cui devi sottoporti a tale tortura. Talmente disgustosa che a volte preferiresti andare dal dentista. O a fare il pap test. Anche perché, più o meno, la posizione sul lettino dell’estetista è tale e quale a quella di quando sei dal ginecologo a farti il pap test. Per non parlare di quando ti fanno mettere a quattro zampe – scusate l’immagine raccapricciante – per, così dire, le rifiniture. Ma chi diamine ha inventato la ceretta all’inguine? E dove è scritto che si debba per forza fare? Perché un conto è fare le mani, le sopracciglia, i baffetti, la pulizia del viso, la maschera al cetriolo. Quelli si vedono. E mettiamoci anche la pedicure, le ascelle e le gambe. Ma perché l’inguine? Perché se non strettamente necessario tipo che vai in piscina, in SPA, in vacanza o hai amanti vari e occasionali?

La ceretta all’inguine, pur dolorosa che sia, è un fatto concettuale. Anche se sei sposata da dieci anni, hai dei figli, non vai mai in vacanzapiscinaspa, metti i mutandoni della nonna e la canottiera dentro i mutandoni, non puoi non avere la “zona bikini” pressochè perfetta. Si chiama amor proprio. Che senso ha avere lo smalto semipermanente alle mani e la zona bikini con un’acconciatura alla Edwige Fenech in Giovannona Coscialunga?
La ceretta all’inguine, naturalmente, richiede una preparazione mentale di  un certo tipo, una concentrazione assoluta, e una fascia addominale ben preparata allo strappo. Una volta applicati questi accorgimenti il gioco è fatto, più o meno. Detto questo, dovrebbero fare un’anestesia locale prima di mettere quella cera bollente su una parte del corpo tanto delicata e tanto innervata per poi strappare con totale sadismo. Ecco.

Il mese dell’uccello è alle porte, cari i miei lettori ma soprattutto care le mie lettrici. Quindi, preparazioneconcentrazioneeaddominaleallenato. Non si sa mai.

venerdì 4 marzo 2016

A che cosa stai pensando? Il popolo di Facebook



Bevendo un caffè con il mio affascinante “capo”, web manager di Altroconsumo, dopo una riunione impegnativa, si vira su discorsi più leggeri parlando del popolo di Facebook. In una sua nota, datata 1 aprile 2012, e intitolata “il Facebook che non sopporti”, aveva deliziosamente sintetizzato tutte le odiosità del papà dei social network. Divertente. E illuminante.

Adoro Alessandro, il mio affascinante capo. Non ci vediamo praticamente mai, a parte un caffè quando capito per caso in ufficio. I nostri contatti si limitano alla posta elettronica, quando deve commissionarmi un articolo, o a un like su Facebook e su Instagram, quando c’è una bella foto. E lo adoro perché, a parte essere affascinante anche se non è esattamente il mio tipo – troppo intellettuale e radical chic, tipo quelli che si rifiutano di leggere Ken Follett perché, citazione sua, “è un libro da supermercato” – ha quella magnifica dote del sarcasmo velato senza essere pungente e mai sopra le righe che fa di lui, nonostante non legga libri di Ken Follett ma solo di Luther Blissett, (meglio noto come Wu Ming) una persona intelligente.

Nella sua illuminante nota su Facebook, divide in 5 punti, in perfetto stile Altroconsumo, tutto ciò che il popolo di Facebook scrive nei cambiamenti di stato e che gli provoca orticaria. Copio e incollo, virgolettando come si conviene a una citazione d’autore.

“Ma ci sono alcuni interventi su Facebook che non si possono proprio sopportare. Senza offesa per chi ne fa uso -probabilmente l'avrò fatto anche io -  i post che mi procurano un'immediata orticaria sono i seguenti.
1) Quelli che stanno per partire per una vacanza e si rivolgono direttamente al luogo di destinazione annunciandogli il loro imminente arrivo. Possibilmente con un uso ripetuto della vocale finale e di punti esclamativi. Esempio: "Sardegna, sto arrivandooooo !!!!". "New York: eccomiiiii !!!!!!!"
2) Quelli che ci devono comunicare a tutti i costi qualunque normalissimo momento della giornata, dal caffè alla pausa pipì. Peggio ancora se con ricorso all'inglese: "aperitivo time".
3) Quelli che mettono "mi piace" ai loro stessi post. Oppure che si commentano da soli. E spesso, in questo caso, i loro interventi rimangono tristemente isolati.
4) Salutare tutti, dare il buongiorno o la buonanotte, è normale su Facebook. Ma per piacere, basta con questi "Buongiorno mondo!". Che poi magari hai soltanto 14 amici! Che si sono pure appena svegliati con le palle girate.
5) Quelli che per raccontare qualcosa di bello usano l'espressione "non ha prezzo", mutuata da una pubblicità della Mastercard. Con l'ancor più tremenda variante "priceless".”

Geniale. Ognuno usa i social come diavolo crede. Dando per scontato il fatto che chiunque possa riuscire a tracciare un identikit da due dati incrociati. O, meglio, Facebook è proprio una finestra sui fatti altrui. Da un post, da una foto, da un like, da una condivisione, si riesce a ricostruire la personalità di un individuo. Facebook è un ottimo mezzo per “stalkerare” persone che si conoscono poco. Per capire i tratti principali di una persona, da quelli che postano senza sosta foto dei figli a quelli che condividono ossessivamente link di cani abbandonati o maltrattati.

Ah, poi ci sono quelli che ti invitano a Candy Crush Saga. O qualcosa con “Farm”. E i fans del “milanese imbruttito”. Quelli delle invettive politiche. Quelli degli insulti contro ignoti che mandano messaggi al misterioso interlocutore sperando che capisca con frasi tipo “chihaorecchieperintendereintenda”. Chi ce l’ha con i meridionali perché parlano a voce troppo alta sul treno, chi posta solamente i luoghi status symbol per far vedere che è uno che conta, da Courma a Santa, dalla Costa Smeralda al ristorante di Cracco, dall’ XFactor Arena agli eventi più cool. Che nessuno si offenda, ovviamente, anche io posto quando vado alla Scala, o quando sono, anzi, ero, alle Maldive. Non sono mica senza peccato. Impossibile scagliare la prima pietra. E poi, se volete offendervi, al massimo prendetevela con il  mio “capo”. Ecco.

Poi ci sono quelli più moderati, che usano i social per postare canzoni, foto di viaggi, articoli di attualità, dibattiti in corso, frasi divertenti, pillole di saggezza, aforismi. Ecco per esempio gli aforismi del mio amico di Facebook @Marco Cattaneo sono geniali e godibili. Così come le massime di @Elisa Tomasoni. Per citarne due.

Il mio uso dei social, a parte postare quando vado alla Scala e alle Maldive, è per lo più giocoso. Scrivo vaccate. Posto foto con le boccacce. Ah, perché poi ci sono quelli che si mettono in posa per strada, sul tram, o a cavallo di una palma se sono in qualche isola tropicale, al solo scopo di usare la foto come immagine di profilo per Facebook. Oltre all’uso giocoso c’è però anche l’uso per cui il social nasce ed esiste, la comunicazione, che nel mio caso ha a che fare con il mio lavoro.

Un’infinità di volte ho avuto la tentazione di cancellare il profilo. O di bloccare persone moleste. Perché ce ne sono tante, di persone moleste che fanno commenti molesti  e fuori luogo e che potrebbero anche, estremizzando, rovinare l’immagine. Il mio affascinante “capo” è pur sempre mio amico di Facebook!

In coda, solo un monito, anche se non è mia usanza. Perché in questi giorni ho la vena riflessiva più che quella ironica. Meno condivisioni di animali squartati e meno foto di bambini sbattuti in bella mostra sul web. Please. Un po’ di buon gusto, in fondo, non guasta mai.