venerdì 25 maggio 2012

Il lancio del bouquet

Il primo tentativo. Sull'albero. Operazioni di recupero.


Il secondo tentativo. Bouquet preso. 



Manu Nico presto sposa.



L’uomo di casa



La mia lista di desideri di bambina non è mai stata molto lunga. Ho sempre avuto tutto, cioè, non proprio tutto, ma avevo le cose più importanti. Senza scadere in un patetico, inverosimile e sdolcinato elenco, per me le cose importanti equivalevano a una famiglia felice, con una mamma geniale, un papà d’altri tempi e tre sorelle bellissime. E’ pur vero che alle medie desideravo tantissimo le Nike All Court bianche con il baffo azzurro o le felpe della Naj Oleari che avevano tutte le mie compagne di classe. Ma le avrei avute a Natale. E mi bastava, era un gran regalo. Ero una bambina felice circondata da amore, qualcosa che nessuna ricchezza può comprare.

La mia lista dei desideri di bambina felice circondata da amore e non molto lunga ha sempre incluso due cose che avrei voluto una volta diventata grande. Una cassetta degli attrezzi tutta per me. E un forno a legna per preparare deliziose pizze. Sono sempre stata un maschiaccio, in effetti. Non amavo particolarmente le bambole, i vestitini rosa o giocare a “negozio”. Anzi, ero piuttosto “truculenta”, inseguivo le lucertole, mi arrampicavo sugli alberi per rubare i fichi al vicino, mi scapicollavo in bicicletta per il giardino e chiudevo le mie sorelle in garage o in cantina per sentirle frignare e poi coccolarmele.

Ma c’erano due cose in grado di placare la mia furia scatenata. Guardare la cassetta degli attrezzi del mio papà e il modo divino in cui li maneggiava, riparando qualsiasi cosa, e osservare mio zio Maci, nella sua villa al lago, mentre infornava pizze nel forno a legna. Essendo la prima di quattro figlie femmine mi sono sempre un po’ sentita il maschio di casa. Non a caso, il mio idolo era Lady Oscar. Mica Candy Candy o Georgie. Roba da ragazzine piagnucolose. E sono cresciuta assorbendo insegnamenti paterni e zieschi in fatto di riparazioni domestiche e farcie per pizze divine.

Quando mi sono sposata, non mi sono affatto rassegnata ad assumere il ruolo della moglie perfetta, anzi. Secondo i dettami del comune pensare, la moglie perfetta è colei che cura la dimora nuziale come fosse un gioiello prezioso. Si sveglia all’alba per fare i mestieri, lava, stira, passa lo straccio, dà la cera al parquet, bagna le piante, prepara la colazione al marito, lo bacia prima di andare in ufficio e torna in tempo per preparagli la cena. Niente di tutto ciò. In un’altra vita ero sicuramente un Hooligan, un perfetto Hooligan. La nostra casa odora di fiori un po’ andatelli. Sotto il letto ci sono gatti di polvere. Sopra il letto, quello degli ospiti, un intero armadio di vestiti stropicciati. In cucina, macchie di sugo sulle pareti, incrostazioni sul piano cottura e, talvolta, un calzino o un paio di mutande. Per non vomitare sui tasti, evito di descrivere il frigorifero. Un totale disastro. L’unica cosa che mi salva dal completo fallimento è il fatto di saper cucinare. Anche se più che cucinare secondo la tradizione, invento e sperimento. Però, in tutto questo,  sono un perfetto uomo di casa.

Un paio di anni fa, per Natale, mio papà mi ha regalato la tanto agognata cassetta degli attrezzi. Gli occhi mi brillavano molto di più di quando sono riuscita a comprare un paio di Manolo Blahnik originali a soli 150 euro. Un sogno che si realizza. Chiavi inglesi, brugole, cacciaviti, chiodi, martello, avvitatore e pinze. E poi, lui, il re degli attrezzi, il trapano.

Il perfetto uomo di casa è colui che si districa con disinvoltura tra le faccende domestiche “da maschio” tipo cambiare la lampadina quando si è bruciata, siliconare la vasca da bagno o il cesso quando perdono, cercare di capire come mai Sky, la rete Wifi o il Pc si sono impallati, martellare chiodi alle pareti per appendere un quadro o trapanare il muro per posizionare un nuovo attaccapanni. Niente di tutto ciò. Il mio uomo di casa, mio marito, non fa niente di tutto ciò. E quando fa casino con i telecomandi e sul suo bel plasma vede tutto nero con una frase intermittente “assenza di segnale”, mi chiama, con voce lamentosa, perché c’è la Juve e non riesce a sistemare il canale. Un disastro. Alle faccende domestiche “da maschio”, ci penso io. A quelle da femmina, Susy Capezzolo.

Quest’estate, in montagna, userò per la prima volta il mio nuovissimo forno a legna. L’ho finalmente avuto e sono elettrizzata. Non manca nulla. Ho la mia cassetta degli attrezzi. Ho il mio forno a legna con tanto di barbecue. Yum. Le felpe della Naj Oleari sono introvabili, se non in qualche vecchio garage o in qualche negozio vintage. Ma le Nike All Court con il baffo azzurro ce le ho. Le ho ricomprate appena le hanno fatte di nuovo. E sono ancora circondata di amore.


lunedì 21 maggio 2012

Damigelle. E testimoni.


Il matrimonio della propria sorella è un avvenimento che richiede ben più di una review scritta. Un po’ come l’album delle foto. Ci vorrebbe un album di reviews. Con la carta velina dopo ogni pagina. Nel post-sbornia da “wedding day”, reale e metaforica, nella mia mente annebbiata da alcol e emozioni iniziano a dipanarsi i fatti salienti e le immagini prendono forma. E il primo fatto da raccontare, perché è quello più nitido nella mia testa, è il delirio assoluto che regnava nella tenuta Maggioni, poche ore prima del si.

Tre sorelle più due testimoni. La notte prima del grande giorno dormiamo tutte insieme in mansarda. C’è anche Carolina, la damigellina porta fedi, che la sposa ha avuto nel peccato, due anni prima di maritarsi con il suo papà. Carolina, detta Pipinus, è super eccitata, fa i capricci da stanchezza infinita e tiene tutti svegli. Comincia ad albeggiare. Ci siamo. E’ il momento dei preparativi.

Come da tradizione le tre sorelle si vestiranno tutte uguali. Al mio matrimonio era stato così, tre bellissime damigelle di bianco vestite. L’abito è stato scelto qualche mese fa, a Londra, in un negozio low cost. Sara e io ci siamo caricate sulle spalle la responsabilità. “Tanto siamo fighe, qualsiasi cosa ci mettiamo andrà bene, e poi al massimo lo impreziosiamo con qualche accessorio chic”. Detto fatto. Tre abitini verde acqua da 15 pounds cadauno. Veramente cheap, ma chissenefrega, tanto siamo fighe. Non lo proviamo, c’è troppa coda ai camerini. Tiriamo su tre taglie compatibili e via, un pensiero in meno. La cosa grave è che quell’abito verde acqua in pizzo da 15 pounds cadauno non lo abbiamo mai provato. O forse si, ma senza l’ufficialità dell’outfit completo. Tanto siamo fighe.  

Ok ok, niente panico. Sono le 11.45. Dopo essermi smazzata Pipinus per due ore giocando a birilli e raccontando Biancaneve, Cenerentola, la Sirenetta e Pollicino mentre genitores accoglievano fioristi e gente varia e le altre sorelle cucivano il coprispalle nuziale e stampavano mappe per i parcheggi  con la sposa al trucco e parrucco, finalmente riesco a buttarmi in doccia e provare, per la prima volta, il mio abito da damigella. Sono serena, c’è margine.

Oh. Mio. Dio. Non posso credere a quello che lo specchio a figura intera mi rimanda. Oh. Mio. Dio. Mia sorella mi ha dato il compito di salire sull’altare a leggere la prima lettura, dal Cantico dei Cantici. Oh. Mio. Dio. Sembro una prostituta. E neanche come una di quelle escort del Ruby Gate, magari. Oh. Mio. Dio. Non posso, nel modo più assoluto, andare a leggere la preghiera vestita in quel modo. Sarei radiata immediatamente dalla chiesa e dal Paradiso. E’ mezzogiorno, porca di quella Ruby. Che fare? O ci vestiamo diverse o dobbiamo trovare al volo una soluzione. Oh. Mio. Dio.

Un piano B in effetti esiste. Il meraviglioso abitino di H&M Conscious Collection. Quello bianco e rosa senza spalline con corpetto in sangallo. In un momento di lucidità lo avevo anche valutato come alternativa alla “cheapperia” verde acqua. E ne avevo anche fatto comprare uno a Sara, 19.90 €, al massimo si cambia. Il piano B ora sembra una realtà. Ma c’è un problema, abbiamo un solo abito in quel momento, quello di Sara. Il mio è nell’armadio a casa a Milano ma se dovessi chiamare mio marito, farglielo cercare e portarmelo, andremmo lunghe. E poi ne manca comunque un altro. Niente panico. Tanto siamo fighe.

Si avvicina la testimone, Francesca Cois, serafica e problem solving. Di solito è il mio pet name, problem solving intendo. Ma sono troppo agitata. E’ lei la nuova regina. “Ale” - mi dice “Andiamo da H&M e ne prendiamo altri due”. Il punto vendita più vicino a Rho è il Portello. Mi rimetto i jeans e la maglietta. Sono le 12.35. Il matrimonio è alle 15. C’è margine. Poco ma c’è. Ce la possiamo fare.

Perdonatemi, se racconterò i prossimi attimi deliranti senza  precisione giornalistica. Troppa la furia in corpo per ricordare esattamente la sequenza degli avvenimenti. Usciamo di casa come due indemoniate. Più io che Francesca, in effetti. Mio papà, Enore Giovanni Battista Maggioni, già in ansia di suo, ci vede schizzare fuori di casa e impallidisce. La sposa e la sua truccatrice ci guardano incredule. Tutto a posto. Si parte, direzione Portello. Ovviamente il navigatore non funziona. Tiriamo fuori l’Iphone. Ci concentriamo. Io guido e Francy naviga. In qualche modo si fa. Un proiettile grigio chiaro in tangenziale. Mi immagino la visuale dal satellite. E rido, mentre impreco all’auto davanti per la lentezza esasperante.

Basta così. Diventerei prolissa nel raccontarvi l’ingresso da H&M, le taglie dei vestiti trovate subito, due paia di ballerine, già che ci siamo, la cassiera che ci vede sudate e con gli occhi impallati e ci chiede se stiamo bene, gli insulti allo stronzo che mi ha parcheggiato appiccicato e mi ha incastrato la smart, la tipa in motorino che stavo per falciare, l’arrivo trionfale nella tenuta Maggioni, la fase trucco-capelli che neanche Usain Bolt. Ce l’abbiamo fatta. Sono salita sull’altare con gli occhi gonfi post ingresso in chiesa della sposa al braccio di Enore Giovanni Battista Maggioni e con Pipinus accanto. Ho la voce un po’ spezzata. Ma ho il mio abito confetto bianco e rosa. Con corpetto di sangallo. Davanti la sposa, bellissima e con uno sguardo che non le avevo mai visto. Di fianco a lei, le altre due damigelle. Con lo stesso abito confetto bianco e rosa con corpetto di sangallo. E con uno sguardo di incoraggiamento. E alla mia destra le testimoni. Una in particolare. Che mi strizza l’occhio. Tanto siamo fighe.



lunedì 14 maggio 2012

Baby Shower


Una mattina appena sveglia, in uno dei miei deliri imprenditoriali, mi era venuta in mente la fantastica idea di organizzare Baby Shower. Occupandomi, per lavoro, di una rubrica che si chiama Baby Vip e che tratta, in lungo e in largo, dei figli del vippame vario, dai tacchi di Suri Cruise ai piccoli eredi di Principi o di presidenti francesi, sapevo benissimo cosa fosse un Baby Shower e mi sentivo carica e in grado di “mettere su” una piccola impresa. Come tutti i deliri partoriti dalla mia mente in fermento, in meno di due secondi la mia brillantissima idea si è sgonfiata. Il Baby Shower è una festa tipicamente americana con cui si celebra la futura nascita di un bebè. Letteralmente significa “fare una pioggia di regali” sia per la futura mamma che per il nascituro e la gravida si contorna delle sue amiche più care, di torte di pannolini e di cicogne di pezza.

L’idea si è sgonfiata perché il Baby Shower non è Halloween. E in Italia c’è poca cultura in tal senso dovuta alla superstizione prenatale. Pur non avendo concorrenti sul mercato, fallirei in una settimana. Poveina io. E pensare che prima di questa brillantissima idea ne avevo avuta una anche migliore. Organizzare feste per i funerali. E sarei fallita in un giorno.

Il mio futuro da imprenditrice è nebuloso e vago. I miei business plan sono sotto il letto insieme ai gatti di polvere. Niente da fare. Si continua a scrivere. Victoria Beckham e Angelina Jolie non mancheranno di farmi guadagnare il pane quotidiano, che tra l’altro non mangio più perché ho eliminato i lieviti. Tutto questo non mi ha impedito di partecipare, per la prima volta, a un vero Baby Shower made in Italy.

La mia amica Viki è in attesa di Fagiolo. O Fagiola. Non ha voluto sapere il sesso quindi, momentaneamente, il suo nome è un legume. Un legume che tra pochissimi giorni si chiamerà Vittoria o Filippo. Viki è una pazzoide vera. Quanto me, se non di più. Anzi, sicuramente di più. Ha vissuto per un periodo negli States e ne ha acquisito usi e costumi. Come farsi mancare un Baby Shower?

Ci siamo trovate tutte a casa di Marta, detta Tata, la migliore amica di Viki e la promotrice dell’iniziativa. Ci ha accolto un buffet di meravigliose torte fatte in casa e di stuzzichini vari. Tutto a base di lievito, ahimè, ed essendo una festa in onore di una signora incinta e di un fagiolo non c’era neppure una goccia di alcol dove poter affogare la mia astinenza forzata da agenti lievitanti. Viki era radiosa, bellissima, come al solito (ha fatto la “Schedina” a Quelli che il Calcio, mica pizza e fichi!) e tutta pancia.

Poi ha fatto il suo ingresso la torta di pannolini seguita da una serie di oggetti e utensili a misura di neonato. E per finire, tutte in cerchio abbiamo sottoposto la futura mamma ad un fuoco di scabrosissime domande su aneddoti del passato recente e remoto. Viki era perfettamente consapevole che io ero lì, in agguato, pronta a cogliere qualsiasi sfaccettatura da spiattellare sul blog. Nulla di così scandaloso, in verità, ma ho promesso di non raccontare. Giuringiuretta. Evviva l’innocenza dei bambini. Evviva i Baby Shower.

mercoledì 9 maggio 2012

Un proiettile azzurro. Fosforescente.


Parigi. Maggio 2012.

Ei fu siccome immobile. Un 5 maggio a Parigi, tres chic. Succede che mia sorella Cecilia si sposa. Succede che si decide di combinare il suo addio al nubilato nientepopodimenoche a Parigi. La formazione titolare vede la festeggiata in palleggio in diagonale con la sorella maggiore, cioè io. Al centro le due sorelline minori, Sara e Paola e in posto quattro le due testimoni, Francesca Cois e Francesca Bolzoni, detta Keke.

L’inizio è di quelli con il botto. Nessuna bomba, grazie al cielo, solo una serie di congiunture negative. Il treno RER per il centro non parte. Si prende una navetta per un altro terminal dove ci sarà un mezzo che ci traghetterà chissà dove. Sulla navetta c’è un gruppo di ragazzi italiani. E’ vero che il mese dell’uccello è finito però uno di loro ha un sorriso incredibile. Belsorrisotiamo. Per innata generosità e per essere la tardona della combriccola lo faccio notare alle altre che approvano con un cenno di assenso.

La seconda congiuntura negativa è che qualche mariuolo ruba la valigia a Francesca Bolzoni detta Keke. Scatta la caccia al ladro che fa sfumare l’approccio con il gruppetto capeggiato da Belsorrisotiamo che però si avvicina per offrirci il suo aiuto mentre stiamo cercando di denunciare il furto mixando francese, inglese e spagnolo. Poi qualcuno ci chiama: “Go Go”! C’è un treno che parte, corriamo come pazze, ci infiliamo sotto il tornello e riusciamo a salire. Belsorrisotiamo è scomparso.

Il giorno dopo parte “l’operazione terremotata” che consiste in una colletta destinata allo shopping d’emergenza per ricomprare almeno le mutande alla povera Francesca Bolzoni detta Keke. E poi la congiuntura diventa improvvisamente positiva. Belsorrisotiamo compare con un’aura luminosa in un mercato coperto. E’ proprio lui, insieme ai suoi amici nerd. Ci saluta, una per una. Non riusciamo a crederci. Le coincidenze non esistono.

La domenica, oltre all’attesa per i risultati del ballottaggio Hollande-Sarkozy, è dedicata al turismo, quello vero. Torre Eiffel e Montmartre. Neanche a dirlo. Davanti al Sacro Cuore c’è la solita folla. Procediamo appaiate a braccetto, per non perderci. E poi Francesca Cois, al mio braccetto, scorge tra l’ammasso di corpi gli amici nerd. Belsorrisotiamo è lì, nei dintorni. I nostri cuori cominciano a battere all’impazzata, cerchiamo con lo sguardo le altre. In un attimo tutto si ferma. Sembra di essere dentro a un film muto in bianco e nero. Si vede solo un proiettile azzurro. E’ la festeggiata, Cecilia, che risale il vicolo sgomitando fra la gente e facendo quasi cadere una cariatide. Ha un giubbino azzurro fosforescente e la faccia da cinese per il sorriso talmente grande da ridurre gli occhioni a fessure. Urla. “C’è il nostro fidanzaaaaaaaaatooooooo!!!” Intorno a noi il vuoto. Iniziamo a ridere e a gridare come galline impazzite. Ci guardano tutti.

Belsorrisotiamo arriva. Rosso in faccia e con un sorriso imbarazzato. Ci saluta come fossimo vecchi amici, non dice altro e tira dritto. Non lo rivedremo mai più. La città dell’amore ci ha tradite. E invece qualche ora dopo accade l’impensabile. Hollande viene eletto, la folla è in delirio. Arriviamo a casa e accendiamo la televisione per seguire in diretta i commenti a caldo. E, sullo sfondo, quella vecchia volpona di Francesca Cois nota un nerd con la felpa verde. E’ proprio lui, l’amico di Belsorrisotiamo. E’ indubbiamente lui. I segnali sono troppi, il fato si sta compiendo. Sono già sposata, Cecilia si sposa, Francesca Cois è sposata. Ne rimangono tre. Nel destino di chi è Belsorrisotiamo?

giovedì 3 maggio 2012

Nozze d’oro. Più uno.

 

29 maggio 2014

Ciao Ezio. Riposa in pace. La tua piccola e tanto attesa Costanza e' riuscita a conoscerti e adesso sta parlando con te. Il suo angelo custode insieme al nonno Bertaggia. E grazie. Per il tuo sorriso. E per essere stato un marito, un papà, un nonno e un suocero davvero speciale.

1 maggio 1961. Le nozze.

E’ una soleggiata mattina di primavera in Valle di Ledro. Nel piccolo paese di Tiarno di Sotto le campane suonano a festa. Sul sagrato della chiesa giunge la sposa. E’ raggiante nel suo abito al ginocchio. Un’irriverenza per l’epoca. Sorride, si guarda intorno, saluta timidamente. E’ al braccio del suo papà, l’appuntato scelto Angelo Bertaggia, una personalità, lì sui monti. Ad aspettarla all’altare c’è il suo Ezio, emozionato e con gli occhi che traboccano d’amore. Maria Luisa, detta Marisa, incede lentamente verso il suo amato. Evviva gli sposi.

27 gennaio 1934. Il principio.

Fa freddo a Tiarno di Sotto. La neve incappuccia le vette. L’aria è glaciale. In una modesta dimora la stufa a legna e la cucina economica scaldano, per quanto possibile, la stanza spoglia. Teresa ha appena dato alla luce il suo secondo figlio. Un altro maschio. Lo hanno chiamato Ezio. Una nuova vita si affaccia nella valle che albeggia. Angelo e Teresa Toniatti non sono mai stati più felici. Evviva i figli maschi.
17 giugno 1935. L’incontro.

Dopo il lungo rigore invernale e una tiepida primavera finalmente l’estate è arrivata. Il giovane appuntato scelto Angelo Bertaggia rientra al paese per un breve congedo. E’ diventato papà. Sua moglie Alma ha appena partorito, è una bambina, Maria Luisa. E’ un giorno di festa in valle. E i bambini più grandi si recano in pellegrinaggio a casa Bertaggia per dare il benvenuto alla nuova nata. C’è anche un fanciullo di poco più di un anno che tiene saldamente la mano alla sua mamma. Si chiama Ezio. Si affaccia curiosamente al bordo della culla puntellandosi sui piedini malfermi. Maria Luisa emette un vagito. Il futuro è scritto. Evviva i primi incontri.

1 maggio 2012. La polenta di patate.

Gli anni di matrimonio sono cinquantuno. Ezio scherza, rinnovando una battuta che negli ultimi anni tiene banco il primo giorno di maggio. Finge di chiedere al figlio avvocato quanti anni di galera si debbano scontare per omicidio. “Trenta” risponde sicuro. “Ecco” - si rivolge a Marisa – “se ti avessi uccisa subito sarei fuori da più di vent’anni”. Si ride. Di gusto. Come di gusto si mangia la polenta di patate che lo stesso Ezio prepara per festeggiare l’anniversario. Evviva i piatti tipici.

1 maggio 2011. Le nozze d’oro.

C’ è grande fermento in paese. Un capannello di gente si raduna nella piazza principale per prendere parte all’evento. I coniugi Toniatti stanno per celebrare cinquant’anni di matrimonio. Tondi tondi. Il banchetto nuziale è allestito. Con tanto di cori che invocano “bacio bacio”. E prima ancora c’è la cerimonia in chiesa. Un vero e proprio rinnovo dei voti. Ci sono i figli, i nipoti, i generi, le nuore e i consuoceri. E ad accompagnare la sposa all’altare c’è ancora il suo papà. Evviva il centenario appuntato scelto.

Oggi. L’amore eterno.

I coniugi Toniatti sono i miei suoceri. E io, forse perché vivono a 200 km di distanza, li adoro. Hanno avuto 5 figli, Tiziana, Michele, Giovanni, Raffaella e Francesca. Hanno 8 nipoti, Giacomo, Dea Virginia, Valentina, Gabriele, Leonardo, Sandra, Alessandro e l'ultima arrivata, Costanza Alma Teresa, in onore alle mamme di Ezio e Marisa. Ezio è un brontolone cronico, recita a memoria le poesie imparate alle elementari interrogandomi regolarmente perchè suppone che io le sappia tutte (all'inizio sorridevo, annuivo e tiravo a indovinare biascicando un Dante o un Petrarca che vanno sempre bene!), racconta aneddoti di guerra e sciorina una conoscenza storica impeccabile. E’ impegnato in politica, costruisce case, tifa il Milan e fa una polenta di patate da leccarsi il baffo fresco di ceretta. Marisa è una brontolona cronica, è una ex maestra elementare, ha una memoria elefantiaca, racconta con occhi sognanti della sua infanzia scandita dalla bora triestina, cucina che è una meraviglia e ha un’energia che io neanche a quindici anni. Litigano, si beccano, discutono, si tengono il muso, gridano. Ma si amano. Di quell’amore raro e meraviglioso che, è il caso di dirlo, dura per sempre. Evviva. Evviva e basta.