martedì 11 dicembre 2012

Il nonno Bertaggia


8 dicembre 2006. La gnocca sciolta.

E’ il giorno del nostro matrimonio. La giornata non è delle migliori, piove e c’è nebbia, il lago non si distingue. Sposa bagnata sposa fortunata, visto che amo tanto i detti. Il mio vestito, in ottoman di seta bianca, lungo fino ai piedi, come da tradizione, è intriso di fango, per l’emozione non sono riuscita ad evitare una pozzanghera. E meno male che non ho lo strascico, troppo romantico. Usciamo sul sagrato, dopo la sacra unione, mano nella mano. C’è il sole. Il lago adesso è una meraviglia, il Garda, in pieno inverno, ha un fascino irresistibile.

E’ ora di festeggiare, lo scapolo d’oro delle valli trentine si è finalmente sposato. C’è incredulità nell’aria, qualcuno mi guarda per capire da che pianeta io provenga, qualcuno si guarda in giro in cerca di un’astronave parcheggiata in qualche angolo. C’è anche il nonno Bertaggia, fiero che il nipote prodigo abbia sposato una come me, la ragazza semplice delle valli rhodensi. Lui, il nonno Bertaggia, è un vero e proprio mito tra gli amici di sempre. Classe 1909, appuntato dei carabinieri, vedovo dal 1998 con una propensione a godersi la vita e ad apprezzare il gentil sesso. Intrattiene gli invitati, brinda agli sposi, sorride. Poi qualcuno gli chiede: “Allora Bertaggia, si sta divertendo? E’ contento che finalmente suo nipote si sia sistemato?” “Si, sono molto contento e mi sto divertendo, solo che C’E’ POCA GNOCCA SCIOLTA”. Cin Cin.

Qualche anno prima.

Esco con Michele da un paio d’anni ma ho conosciuto la sua famiglia solo da pochi mesi.  E’ estate e siamo invitati a un matrimonio. Sono seduta accanto al nonno Bertaggia, il meglio che mi potesse capitare. E’ spassoso, acuto, ha storie interessanti da raccontare e ascoltarlo è un vero onore oltre che un piacere. E lui si bea, sta conversando con una ragazza giovane e, per l’occasione, pure elegante. E’ un vero gentiluomo, uno di quelli da baciamano. Il tono si fa più confidenziale, mi si avvicina, abbassa la voce, mi guarda intensamente negli occhi e mi dice: “BATTI IL FERRO FINCHE’ E’ CALDO. MIO NIPOTE E’ UN OTTIMO PARTITO, NON LASCIARTELO SCAPPARE”. Cin Cin.

Primavera 2007.

C’è il funerale di un giovane parente a Milano. Il nonno Bertaggia vuole esserci ad ogni costo. E’ caparbio, non ascolta nessuno, si fa accompagnare a Rovereto e prende il treno. Un cambio a Verona per la stazione Centrale di Milano. Michele lo aspetterà al binario per portarlo a Sesto San Giovanni. Siamo tutti un po’ preoccupati, è in gamba ma ha 98 anni, magari non riesce a cambiare il treno, magari si addormenta. Speriamo bene.

Michele si presenta al binario all’ora prestabilita. Del nonno nessuna traccia. Panico. Non ha un cellulare, non si sa dove sia finito, non si trova. Siamo tutti in allerta e piantoniamo i possibili punti di riferimento dove, in caso di smarrimento, si sarebbe potuto recare. Poi arriva una telefonata. Il nonno ha preso la metropolitana fino a Sesto, cambiando in Loreto dalla verde alla rossa, poi ha fatto l’autostop, lo hanno caricato due marocchini a cui ha dato l’indirizzo. E’ arrivato sano e salvo a destinazione. Chapeau.

Inverno 2008.

Il nonno Bertaggia di anni ne ha 99, i prossimi sono 100. Tondi tondi. Fa freddo in valle di Ledro, l’inverno è di quelli tosti. Una brutta bronchite evolve in polmonite che a quasi 100 anni fa temere il peggio. Ricovero in ospedale, ossigeno, assistenza. Ma il nonno Bertaggia ha la scorza dura. In venti giorni si riprende e torna più arzillo di prima. Andiamo a trovarlo a casa. Cerca di esorcizzare mi guarda e mi dice: Alessandra, sto facendo le prove per la bara, secondo te sono più carino con le braccia distese oppure incrociate al petto”? Io amo quest’uomo.

1 Agosto 2009.

I 100 anni sono arrivati. E’ grande festa in Valle di Ledro. Tutto il paese è in piazza a festeggiare il nonno Bertaggia. C’è un grande tendone in piazza allestito per l’occasione. Ci sono i carabinieri a rendere omaggio al centenario. Arriva anche una lettera di auguri dal Ministro della Difesa. C’è la figlia, i nipoti i bis nipoti, i cugini. Tutti per lui, per il giorno tanto atteso. E lui non si risparmia. A fine serata confessa di avere paura di non svegliarsi la mattina dopo per le fatiche della festa e le emozioni. Si sveglia. Eccome se si sveglia.

Natale 2010.

Dallo scorso anno il giorno di Natale per le famiglie Maggioni e Toniatti è da festeggiare tutti insieme. Siamo veramente tanti, una trentina. Ognuno prepara qualcosa, abbiamo un tavolo gigante, tanti piatti e tante sedie. Un pranzo pantagruelico, mille regali, tanta gioia. Manca solo il nonno Bertaggia. Ha 101 anni, è in forma, ma ha un po’ di influenza e non se la sente di venire. Gli lasciamo un telefono con il numero da chiamare in memoria in caso di bisogno. Deve solo pigiare un tasto. Purtroppo la telefonata arriva, il nonno Bertaggia non riesce a respirare, corsa in ospedale, tanto spavento e una diagnosi: embolia polmonare. Sta bene ed è fuori pericolo. Deve solo passare un periodo di degenza in una casa di cura. Andiamo a trovarlo. E’ già il leader di Villa Regina. Passa un' infermiera di colore, lui le strizza l’occhio le dà una pacca amichevole sul sedere chiamandola “biondina”. Poi ci congeda, deve andare a giocare a tombola con le sue nuove amiche. Mi guarda e mi dice: “SAI ALESSANDRA,  MI TOCCA GIOCARE CON TALI CARAMPANE! AVRANNO ALMENO SESSANTA -SETTANT’ANNI”. Sono sempre più innamorata di lui.

11 dicembre 2012.

Angelo Bertaggia. Un angelo speciale è volato in cielo. Ha scelto il momento giusto per accompagnare un altro piccolissimo angioletto. Non se la sentiva di lasciarlo solo. Grazie nonno Bertaggia. Grazie. Il tuo sorriso e il tuo spirito ti renderanno per sempre immortale.

lunedì 19 novembre 2012

Il bicchiere mezzo pieno



Sono stanca; è tutto una merda; ma perché proprio a me; tu non mi consideri; non ce la farò mai; lavoro troppo e non ho neppure il tempo di respirare; mi fa male la testa/pancia/denti/schiena; mi annoio e tiro a campare. Il bicchiere insomma, è sempre mezzo vuoto. La bevanda è stata versata ma solo per metà. L’oste è stato un po’ ingeneroso, la vita ingiusta. Perché il bicchiere di quell’altra è quasi pieno e il mio invece è mezzo vuoto? Che cosa ho fatto per meritarmelo?

Un lamento continuo. Senza fare nulla per uscire dalla situazione per cui ci si lamenta. Crogiolandosi tiepidamente in quel lamento perché fa tanto vittima. Piangersi addosso è di gran lunga meglio che cercare di reagire. Fa proprio bene alla mente e al cuore. Vomitare addosso all’umanità problemi inconsistenti, parti della propria mente insoddisfatta, quando invece si ha tutto ma non ci si accorge. Perché lamentarsi è più bello. Perché piagnucolare è meno faticoso che reagire.

Identikit. Occhi da cane bastonato. Sorriso all’ingiù tipo quello degli emoticon degli sms e di whatsapp. Spalle un po’ curve e andatura ciondolante. E la risposta tipica, alla domanda “come va?”, “mah, insomma, potrebbe andare meglio”. La risposta non è mai “bene”.

Un’insoddisfazione perenne. Una ricerca ossessiva di una felicità che non esiste. Una scarsa comprensione dei meccanismi della vita, della natura, dell’universo o, forse, una non accettazione dell’inesistenza della felicità e un non accontentarsi di uno stato di fragile serenità. Con picchi di felicità che però durano giusto un attimo. Quando per esempio la palla dell’ultimo punto del set cade a terra e ti regala la promozione dopo i play-off. Quell’attimo è di felicità pura. Ma poi tutto torna candidamente sereno. Fino al prossimo attimo. Perché non riuscire a godere neppure di questi brevi istanti?

Credo di averlo già scritto in un altro post, sono una ragazza fortunata. Non perché mi hanno regalato un sogno. Nessuno mi ha mai regalato sogni e i sogni, forse, sono confezionati proprio per essere scartati e infranti. Sono una ragazza fortunata perché riesco a gioire di quello che ho e non a disperarmi di quello che purtroppo non ho e forse non potrò mai avere. Il bicchiere mezzo vuoto per me non esiste. Il mio oste è generoso e quel bicchiere opaco per i troppi lavaggi nella mia lavastoviglie in cui manca perennemente sale speciale e brillantante, contiene sempre una bevanda che, secondo la mia prospettiva, supera sempre la metà. Sono davvero una ragazza fortunata.

sabato 29 settembre 2012

La regina della gaffe



Ebbene si. Lo ammetto. Sono la regina della gaffe. Medaglia d’oro olimpica. Un imbarazzante primato, uno sport in cui non ho rivali. Vinco sempre a mani basse. La natura non mi ha dotato di filtri e il percorso cervello-corde vocali è fulmineo e senza ostacoli. Una strada spianata e priva di curve, anse, promontori, burroni e corsi d’acqua. Un’orografia perfettamente pianeggiante.

La più grande verità, che ha decretato la mia vittoria assoluta elevandomi di diritto nell’olimpo delle gaffes l’ha pronunciata mio suocero in tempi non sospetti, quando il mio attuale marito - che mi ha sposata a 43 anni - arrivava in Val di Ledro, natio borgo selvaggio, con vagonate di modelle brasiliane al seguito. Uno stuolo di ex fidanzate che se avesse deciso di invitare tutte al suo addio al celibato non gli sarebbe bastato San Siro. Confuso da tanta beltade sudamericana, inframmezzata da qualche comparsa dell’est Europa, il papà di mio marito ha pronunciato la sentenza: “ci hai presentato interi pullman di ragazze da tutto il mondo ma non ti sei ancora sistemato. Vedrai che alla fine sposerai una cretina”. Un profeta.

Negli anni mi sono sottoposta ad un training estenuante per riuscire a scendere dal podio. Niente da fare. Rimango la campionessa assoluta, non c’è verso. Forse ho un po’ migliorato la modalità d’espressione della gaffe. Ma sono sempre la regina. Ho rischiato di rovinare amicizie, relazioni, incontri. Mi sono giocata posizioni professionali importanti. E’ una pesante croce da portare. Non c’è rimedio. Non riesco proprio a costruire quel filtro. Rimane lì, come una diga aperta, nei pressi dell’epiglottide. Si vede che la mia plica cartilaginea ha un difetto congenito.

Il difetto congenito è certamente una trasmissione del patrimonio genetico. Perché mia sorella Cecilia, la seconda della tribù Maggioni, è anche la seconda sul podio. Medaglia d’argento. Le sue colossali figure di merda, se possibile, sono state meno gravi delle mie ma numericamente superiori. Solo che il comitato olimpico misura il gradiente di gravità. E quindi vinco io.

La sua carriera da gaffeur è iniziata quando era molto piccola, nella prima età scolare. Avrà avuto più o meno 6 anni quando è saltata in spalla, in mezzo alla strada, ad un signore alto e distinto che sembrava il papà. Ma non era il papà. Ha proseguito, un po’ più grandicella, entrando in una Fiat Punto blu che sembrava proprio quella del papà, al posto di guida, fuori dalla scuola. Ma non era quella del papà. I casi sono due: o il nostro papà ha una fisionomia molto comune e somiglia sempre a qualcun altro o mia sorella Cecilia è irrimediabilmente recidiva.

Il fatto è che neanche lei migliora. Ormai è moglie e madre. Eppure, proprio ieri, il suo status di facebook recitava: “Ceciliaimparaatacerececiliaimparaatacerececiliaimparaatacere”. Ne ha combinata un’altra. La chiamo, con il cuore in gola. Forse finalmente potrebbe scalzarmi dal podio. L’ha combinata al lavoro. Porca paletta. Il problema è che non posso darle consigli da sorella maggiore. Perché sono e rimango la regina.

C’è stata solo una volta in cui Cecilia ha rischiato di togliermi dal collo la medaglia di oro zecchino. Puro come quello contenuto nel deposito di Paperon De Paperoni. Antico come quello raccolto nel Klondike. A prova di Bassotto. Ma Paperone aveva la numero uno. A me l’ha fregata Amelia, non avevo abbastanza aglio. E la medaglia d’oro zecchino del Klondike è ancora saldamente al mio collo.

Succede che Cecilia, che ha appena aperto la Partita Iva, si debba recare dal suo commercialista per compilare qualche scartoffia. Un commercialista che non ha trovato sulle pagine gialle o per passaparola, è un amico di famiglia. Lei piace a lui, in modo discreto ma evidente. Lui piace a lei, è lusingata dalle sue attenzioni, si sono studiati nelle settimane passate, ma la cosa non decolla, lei si è lasciata da poco con il fidanzato storico ed è irrimediabilmente innamorata di lui. C’è stato un flirt, virtuale, fatto di scambi di sms, due o tre mail, qualche allusione sospesa.

Sono uno davanti all’altra, nello studio, parlano di tasse, iscrizioni all’ordine, burocrazia. Roba noiosa. Squilla il cellulare e il commercialista si scusa, prende il telefono e esce dalla stanza per rispondere. Lei si guarda in giro, sbadiglia. Lui non torna. Lei tira fuori dalla borsa il suo telefono e manda un sms alla sua amica Francesca Cois: “Francy, sono dal commercialista, ha su un maglione assurdo, ma come cacchio faceva a piacermi questo?”. Preme il tasto invio. E si accorge immediatamente di averlo inviato a lui. Porca miseria. Suda freddo, ispeziona la stanza per trovare la via di fuga. La finestra è troppo piccola. E poi lo studio è al quarto piano. C’è un telefono cellulare sulla scrivania. Magari c’è una via d’uscita, magari ha due telefoni, uno personale e uno di lavoro e il messaggio incriminato è nel telefono sulla scrivania. Si avvicina alla porta e si mette in ascolto. Sta ancora parlando, bene. Prende cautamente il telefono sulla scrivania. Forse riesce a cancellare il messaggio. Sente una voce alle spalle: “ma che cos’ha di male questo maglione?”. E’ la fine. Una vampata di calore sale dalle viscere, la faccia brucia rubiconda. Abbassa gli occhi e risponde: “ti fa le spalle piccole” e lui: “ho le spalle piccole” e lei: “APPUNTO”. Si rende conto che va di male in peggio e aggiunge: “che figura di merda….ehm…scusami…non so cosa dire…mi vergogno a uscire, la segretaria potrebbe aver sentito tutto….”  E lui, glaciale: “dovresti vergognarti a stare qui”.

Bene. La cosa drammatica di tutto ciò è che, visto che continuo a detenere il primato, ho fatto di peggio. Qualcosa che mi demolirebbe definitivamente se lo raccontassi in un blog. Sono irraggiungibile. Quello che ci salva sempre, a noi con la plica cartilaginea dell’epiglottide difettosa, è la totale buonafede unita alla involontarietà. Assolte. Ma quel profeta di mio suocero aveva ragione.

mercoledì 26 settembre 2012

The importance of being HAIR STYLIST


Andare da un hair stylist di fiducia, per una femmina, è fondamentale come scegliere il dentista o il ginecologo. E’ un fatto puramente concettuale, quando esci dal salone di bellezza devi sentirti rassicurata, fiduciosa, con l’autostima alle stelle e gnocca. Avere una testa decente equivale a sfoggiare un bel sorriso alla Durbans, a sapere che il Pap test è negativo, ad avere la consapevolezza di essere sana.

Avevo un hair stylist di fiducia, Marcello. Il salone era proprio accanto a casa dei miei, comodo. Lui era un vero artista, uno scultore dei capelli, un genio. Mi mettevo letteralmente nelle sue mani lasciando che liberasse il suo tocco creativo. E ogni volta uscivo dal salone fighissima. Tanto da illudermi che tutti mi guardassero perché ero fantastica e non perché avevo la faccia sporca o il baffo trascurato. Mi sono fatta delle gran vasche Milano-Rho solo per andare da lui, Marcello, il genio. Un giorno la brutta notizia, Marcello torna nella sua Napoli. Mi lascia sola. Credo di aver portato il lutto per settimane e di essermi fatta tagliare i capelli almeno 10 volte in un mese prima che partisse. Per fare il pieno e tollerare più a lungo l’astinenza.

E adesso? Nessuno sarà mai come lui. Vado a tentativi. Ho i capelli corti e l’assenza di Marcello è ancora più drammatica. Provo da Tony and Guy. L’hair stylist che ho scelto me li taglia bene ma c’è qualcosa che non mi convince. Non mi sento a mio agio, mi manca Marcello. Ci vado due volte e poi insieme a mia sorella compro un coupon su Groupon. Aiuto. L’esperienza si rivela positiva ma a quel punto decido di far crescere i capelli e per la spuntatina trimestrale basta anche un coiffeur qualunque.

Poi inizia il dramma della brizzolatura incipiente. Sul capello castano scuro gli odiosi fili canuti si vedono di brutto. Devo diventare biondiccia. Piano piano. Devo farlo assolutamente e subito. Il problema è che sono in Valle di Ledro e non sono certa dell’esistenza di un parrucchiere, figuriamoci di un salone come si deve. E invece c’è. Mi butto. Colpi di luce. Il risultato non è male ma l’hair stylist di fiducia in Val di Ledro non è propriamente comodo. Niente panico.

Tre mesi dopo tento la carta del coiffeur sotto casa. Michelle. Mi fa i colpi di sole e mi sfila il taglio. Esco praticamente bionda ma sto abbastanza bene. Dopo altri tre mesi e la brizzolatura in crescita vado a rifare il colore. Esco rossastra con i colpi di sole sotto ancora biondi. Non ci siamo. Rimando a quando tornerò dal mare. E dal mare torno con una chioma leonina e ingestibile. Bisogna tagliare. Non da Michelle.

Mi consulto con le mie amiche ricce, Giulia e Daniela. Mi danno due dritte preziose ma io ho bisogno di trovare la mia identità, il mio salone, il mio nuovo Marcello. Un martedì all’ora di pranzo mi trovo per caso nei dintorni di Piazza Oberdan. E mi viene in mente Winters, quello di Groupon. Butto dentro la testa, leonina, per vedere se c’è posto subito. Daniel mi accoglie con un sorriso e io mi sciolgo i capelli così si rende conto. Ha la compiacenza di rimanere con il sorriso. Non c’è posto subito ma dopo mezz’ora. Ci siamo, è fatta.

Mi siedo. Daniel si consulta con un altro Hair Stylist, Damiano. La mia chioma leonina e brizzolata è sotto i loro occhi esperti. Parlano tra loro e procedono. Daniel si scusa, ha un impegno importante, deve andare e mi lascia nelle mani di Damiano. Lo lascio fare. Cerco di distrarmi, mi bevo un caffettino e giocherello con l’Ipad, guardo i voli per Ibiza, ci sono i closing party questo week-end. In tre ore e mezza, con maestria e abilità, Damiano spazza via la Zazzera Leon e mi crea una testa spettacolare con un taglio asimmetrico, una base biondo scura e gli shatush. Divino. Marcello sarà sempre nel mio cuore. Ma ho finalmente trovato ed eletto il mio nuovo Hair Stylist!

mercoledì 12 settembre 2012

Buen retiro a Maladroxia – isola di Sant’Antioco –


Avevo pochi mesi di vita quando mi è stata diagnosticata la psoriasi. Niente di grave, una malattia psicosomatica cronica, tutto qui. Ho preso coscienza della cosa a 14 anni, in prossimità dell’esame di terza media. Una bella chiazza rosastra e squamosa sulla coscia sinistra. Ha esordito con un puntino fino ad allagarsi a dismisura. Il biglietto da visita dello stress da esame. All’epoca, alla fine della scuola si stava al mare per almeno tre mesi. Da giugno a settembre. E dopo aver girato per tutti gli studi specialisti della provincia milanese, tra dermatologi, psicologi, naturopati e compagnia bella, l’unica cura possibile per la mia chiazza squamosa sempre più larga, l’unica e sola medicina, era passare più tempo possibile al mare. Il sale è decappante. Il sole guarisce la ferita appiattita dal sale del mare. E la mia psoriasi è miracolosamente e completamente guarita.

Il secondo episodio si è manifestato sulla mia pelle a 26 anni. Poco dopo aver conosciuto mio marito. E poi dicono che stare in coppia sia fonte di serenità e equilibrio. Mah. Ora di anni ne ho trentasette. E quel piccolo puntino non è mai andato via e si è allargato fino ad essere un quadrello di dieci centimetri per cinque. E’ fisso. Da undici anni. Non è mai guarito. E’ su entrambe le gambe, appena sotto il ginocchio. Ogni estate lo tengo a bada con il mare e il sole. Ma non mi basta. Torno a Milano ed è sempre peggio.

A luglio mi sono fatta visitare da un luminare. Niente di nuovo. Diagnosi confermata. E anche la cura. Mare. Sono riuscita a partire solo l’11 agosto, direzione sud Sardegna. Beatitudine immediata. Ma due settimane non bastano. Ci vuole almeno un mese. Porca miseria, mi tocca proprio una brutta cura. Il mare. Scelgo il  mio buen retiro nell’isola di Sant’Antioco, località Maladroxia. Mi prendo una stanza in un albergo a 100 metri dal mare. Sono da sola, mio marito, suo malgrado, ha incombenze lavorative a Milano. Io, fortunella, posso lavorare da qui.

Vengo letteralmente adottata dai proprietari dell’albergo, Patrizia e Francesco, deliziosi. Sono qui da sola, senza macchina, con due biciclette e un vero e proprio trasloco di valigie, utensili e oggetti vari, visto che sono in giro da un mese. Mi mettono a disposizione il garage dove ricovero tutta la mia roba. Patrizia mi presta il phon, Francesco mi sistema la sciacquone del bagno, i loro bambini e Lucky, il loro cane, mi sorridono, amabili. E’ come essere a casa. E poi c’è la sorpresa della cucina. Sublime. La signora Rita prepara dei piatti da leccarsi il baffo. E leccarsi il baffo con la brezza marina e la luna piena è da manicomio.

Ha piovuto. Per tutta la domenica. Ma poi è uscito l’arcobaleno. Ho messo le gambe in acqua. La mia pelle sta guarendo. E stare sola non è così male. Io e i miei calamari fritti cucinati da Rita. Il mio Ipad. Patrizia e Francesco. E la luna piena. Tornerò a Milano con una macchia biancastra e ridotta. E con il cuore più ricco.

giovedì 19 luglio 2012

Amarcord


Capita, a volte, di aver bisogno di abbeverarsi da una sorgente pura. Succede quando la linfa vitale si aggira intorno al livello zero. L’energia evapora, si dissipa nell’aria formando un tutt’uno con la canicola che opprime l’atmosfera. Di solito succede in primavera inoltrata quando fa già caldo e gli uccelli tornano dalla migrazione. Il cambio di stagione è traumatico, si passa dal piumino alle maniche corte senza mai passare dal trench, ahimè, con mio grande disappunto visto che ho l’armadio pieno. Di trench.

Dicevo, capita a volte di aver bisogno di abbeverarsi da una sorgente pura. Una di quelle di montagna, con acqua fresca e tonificante. Un elisir che promette ristoro immediato. Un po’ come quando si corre a perdifiato fuori da un bosco oscuro, fuggendo dalle tenebre. I polmoni bruciano, la gola è arsa, il fuoco lambisce ogni giuntura. E poi eccola, la fonte benefica. Mi sa che il processo identificativo di Hunger Games è stato fenomenale. Mi sento Katniss Everdeen che beve acqua di lago tra la vita e la morte. La mia linfa vitale è, decisamente, a livello zero.

Amarcord. Quando la linfa vitale è quasi del tutto esaurita, il corpo ha bisogno di acqua pura e la testa di leggerezza. Svuotare il cervello dai pensieri. Un drag and drop sul dekstop, direzione cestino. La mia idea di leggerezza, dopo aver reidratato a sufficienza le membra, è cercare un rassicurante rifugio in un passato dove la levità cerebrale era una costante. Quella leopardiana età delle illusioni che tanto mi manca. Quando la ragione ha un ruolo da comprimaria e l’istinto da leader. Quando regna l’irresponsabilità e l’appiglio alla cima che tende l’infinito sembra a portata. Un tuffo nell’illusorio passato. Perché in quella sorgente pura, non solo ci si può abbeverare ma si può pure fare il bagno. Il palliativo è un feroce, avido amarcord.

Il mio personale amarcord ha un volto, un nome e un luogo. Il luogo è Varazze. Dopo alcune settimane difficili siamo stati invitati in Liguria, per un breve week-end. Il mare, già di per sé, per me è la medicina più potente per curare nervi tesi e dermatite cronica. Mettici poi la compagnia, una bella casa, del buon cibo e le invitanti bollicine che, non si sa come, stanno lentamente soppiantando il mio amore vero per il vino fermo e fruttato.

Arenzano. Cogoleto. Varazze. Celle Ligure. Il percorso mi è familiare, da ragazzina andavo in vacanza proprio a Celle Ligure. Si partiva a giugno, baracca e burattini, si stava lì 3 mesi e si tornava a settembre. La mia dermatite andava via che è un piacere, i miei nervi erano sempre distesi, tornavo a scuola abbronzata, bionda e sul pezzo. Sono passati vent’anni dall’ultima volta che sono stata a Celle. Venti tondi. Che un po’ fa strano, in verità, perché di anni me ne sento proprio venti. Avvicinandoci alla meta, abbasso il finestrino e inizio a immergermi nei profumi della macchia ligure. L’effetto madeleine proustiana è devastante. Sono tornata ad essere quella ragazzina spensierata che giocava a pallavolo sulla spiaggia, cantava a squarciagola la Canzone del Sole di Battisti accompagnata da una chitarra e usciva la sera per un gelato sul lungomare quando l’unica preoccupazione era il coprifuoco, 22.30 a casa. E poi i primi batticuori, il sole che, infuocato, si adagia nel mare piatto, le stelle che illuminano le passeggiate mano nella  mano sulla battigia, un futuro tutto da vivere e pieno di speranza. Arenzano. Cogoleto. Varazze. Celle Ligure.

Il mio secondo, contestuale, amarcord ha un volto e un nome. Che per questioni di privacy non posso palesare. Non si sa mai. Succede che, per motivi familiari, vengo catapultata di punto in bianco a dover, mio malgrado, frequentare un ospedale. Un reparto di chirurgia. Nella sala d’attesa, in apprensione e con il mio Ipad tra le mani per distrarmi, vedo passare nel corridoio un camice bianco. Un volto già visto, sono sicura, sono campionessa europea di memoria. Colloco quel volto immediatamente. Liceo Majorana, Rho, classe terza, sezione D. Io facevo la quinta. Il giorno dopo ho l’’occasione di verificare. E’ proprio lui. Mi identifica, ero rappresentante di istituto al liceo e avevo quella popolarità e quell’illusorio delirio di onnipotenza che solo la giovinezza è capace di dare. E’ abbastanza facile riconoscermi, non sono cambiata poi tanto. La madeleine proustiana ritorna violentemente a tormentarmi le viscere. E io sono ancora quella ragazza con i capelli lunghi alla Jenny di Forrest Gump e i jeans elasticizzati che organizza il sit-in per la Guerra del Golfo. Ci tuffiamo, entrambi, in un dolce ricordo. Il mio sguardo profuma di magica meraviglia. E’ diventato medico chirurgo, assistente di un luminare. E mi confessa di non aver mai studiato la Divina Commedia. Fingo di essere allibita. E il giorno dopo, d’istinto, compro una Divina Commedia da regalargli. Per ringraziarlo. Per aver reso possibile una speranza medica. E per avermi fatto gustare, di nuovo, quella deliziosa, soffice madeleine.

venerdì 6 luglio 2012

La quiete dopo la tempesta


Giacomo Leopardi - Settembre 1829

Passata è la tempesta:
Odo augelli far festa, e la gallina,
Tornata in su la via,
Che ripete il suo verso. Ecco il sereno
Rompe là da ponente, alla montagna;
Sgombrasi la campagna,
E chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato
Risorge il romorio
Torna il lavoro usato.
L'artigiano a mirar l'umido cielo,
Con l'opra in man, cantando,
Fassi in su l'uscio; a prova
Vien fuor la femminetta a còr dell'acqua
Della novella piova;
E l'erbaiuol rinnova
Di sentiero in sentiero
Il grido giornaliero.
Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
Apre terrazzi e logge la famiglia:
E, dalla via corrente, odi lontano
Tintinnio di sonagli; il carro stride
Del passegger che il suo cammin ripiglia.

Si rallegra ogni core.
Sì dolce, sì gradita
Quand'è, com'or, la vita?
Quando con tanto amore
L'uomo a' suoi studi intende?
O torna all'opre? o cosa nova imprende?
Quando de' mali suoi men si ricorda?
Piacer figlio d'affanno;
Gioia vana, ch'è frutto
Del passato timore, onde si scosse
E paventò la morte
Chi la vita abborria;
Onde in lungo tormento,
Fredde, tacite, smorte,
Sudàr le genti e palpitàr, vedendo
Mossi alle nostre offese
Folgori, nembi e vento.

O natura cortese,
Son questi i doni tuoi,
Questi i diletti sono
Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
E' diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto
Che per mostro e miracolo talvolta
Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana
Prole cara agli eterni! assai felice
Se respirar ti lice
D'alcun dolor: beata
Se te d'ogni dolor morte risana.

mercoledì 20 giugno 2012

Bachelorette Party. Vero. Seconda parte, l’epilogo.



La futura sposa, Emma Caronni, seppur bendata, non ha vomitato. Le premesse sono ottime. Anche perché dovrà fare il pieno di cupcakes. Le ragazze arrivano, alla spicciolata. La prima è Anna, detta Nina, che mi sbalordisce per il suo sguardo verde smeraldo montato su una faccia bellissima. Ha 24 anni è la più giovane della combriccola. Poi Giulia, che di anni ne ha 26 e ha l’occhio tendente al turchese. Io sono in ciabatte, ho le gambe cineree e massacrate dalla dermatite, la ricrescita da colpo di sole che latita e l’ascella che già inizia a cedere per l’emozione e il gran caldo. E sono la più anziana, anzi no, stanno arrivando Kikka e Vane, 20 maggio 1974. Entrambe.

Vanessa chiama, sono in Buenos Aires. 
Sale l’attesa. Parcheggiano. 
Giulia, Nina e io ci precipitiamo sul balcone 
per goderci la pantomima dell’trionfale ingressoMa l’olfatto di Emma non la abbandona. Riconosce l’odore dell’ingresso di casa mia. Eppure i fiori sono freschi, non capisco. Siamo pronte, via la benda dagli occhi, per fortuna la sposa, futura, ce li ha scuri, iniziavo a sentirmi persa in un mare smeraldo tendente al turchese anche se le due anziane Vanessa e Kikka hanno l’iride azzurro cielo, ma sono anziane.


La prima tappa nel dettagliato programma 
prevede una lauta merenda a base di cupcakes
Sono tutti lì, deliziosi e anelanti, sull’alzatina di cartone. 
Tranne uno, quello della sposa, futura, che è tutto di cioccolato e si distingue dagli altri perché ha un nastrino lilla
Emma ci tuffa la faccia e la sua espressione cambia
La serotonina fa sempre il suo porco lavoro, dopotutto. Inizia la presentazione delle sorprese. Prima il book. Emma appoggia il suo cupcake addentato a metà. Ha la punta del naso sporca di cioccolato. Deliziosa. Sfoglia il libro, viene obbligata a leggere ad alta voce, tutte vogliono vedere le lacrime. Niente. A parte lo sfondo color caramello il book non contiene serotonina.

Bene. Fino ad ora abbiamo scherzato. Adesso arriva la parte divertente. Prima la maglietta e poi il velo che le strappano un mezzo sorriso. 
Dovrà indossare entrambi, insieme ai palloncini che Nina mi ha aiutato a gonfiare, legati ai polsi e alla cintura. La prossima tappa è lo shopping ma lei non lo sa. Indovina in un nanosecondo, stiamo andando da Zara. La presuntuosa e arida Milano accoglie la sposa, futura, con indifferenza. E lei gradisce, quatta quatta. Nessuno sembra fare caso ad un gruppo di squilibrate che fanno da cornice ad una cristiana di unmetroeottantatrè con un velo improbabile, una maglietta emblematica e un paio di shorts in denim con dei palloncini alla cintola. Il commento più curioso che riceve le arriva da un signore di mezza età che la guarda stranito e dice: “stai andando a fare la prima comunione?”. La risposta arriva diretta e puntuale: “no, la seconda”. Abbiamo le convulsioni dal ridere, lì, in mezzo alla strada. Il signore era serio.

Da Zara tutto bene. Dovrà scegliere l’abito che più le piace con una sola regola, rigorosamente bianco. Le proponiamo cinque o sei outfit che potrebbero andare bene. Il commesso metrosexual ci fa entrare in massa in camerino, niente foto però. Siamo tutte d’accordo per un abitino di pizzo, molto romantico. Poi Vanessa sfodera il colpo di genio e con la coda dell’occhio azzurro cielo vede una tuta intera, per gli esperti Jumpsuit, bianca virginale, con un inserto trasparente sul décolleté. E’ la sua.

Torniamo a casa, ci scoliamo un litro d’acqua, ci rilassiamo un attimo e siamo subito operative per la vestizione pre cena. Si vede che siamo quasi tutte ex pallavoliste con anni di allenamento nel prepararsi in tempo record per l’uscita del sabato dopo la partita. In due minuti esatti siamo pronte. Nina trucca la sposa, futura. Il risultato è meraviglioso. Si va. Il ristorante, come promesso, è tutto per noi. Emma è rilassata e a suo agio, mangiamo e beviamo in quantità. Poi l’ultima sorpresa. Il torneo di biliardino con tanto di tabellone con girone vincenti e perdenti. Scegliamo le squadre in modo del tutto democratico. Il destino vuole che io capiti con Kikka, l’altra anziana del 20 maggio 1974, con l’occhio azzurro cielo. Me la ricordo quando giocava. La sua trance agonistica era pari alla mia. E per puro caso capitiamo insieme.

Inutile dire chi ha vinto. Con una galoppata trionfale risalendo dal girone perdenti, Kikka e io arriviamo in finale. Le altre si lamentano, non sanno proprio perdere, sono convinte che abbiamo barato. Dicono che rulliamo, che siamo disoneste, che stordiamo le avversarie con urletti che neanche la Sharapova in finale al Roland Garros. Giochiamo contro la sposa, futura, e la sua compagna Iva, acqua cheta che, zitta zitta, ha fatto rimbombare il rumore del gol fino in Corso Como. Inizia a sudarmi il baffo per la tensione. Abbiamo il tifo contro, chissà poi perché. Sul punteggio di 8 a 6 per noi Kikka la mette con il portiere. Scoppia l’urlo liberatorio. Campioni del Mondo.

La sposa, futura, è felice, anche se ha perso. Ci congeda abbracciandoci una per una. La prossima volta che la vedremo avrà un altro abito, di un colore di un bianco indefinito, non abbiamo capito esattamente di che nuance. Grazie, Kikka, Vane, Mony, Nina, Giulia, Lucy, Iva, e anche a tutte coloro che non sono riuscite ad esserci ma che comunque c’erano. Per la realizzazione del Bachelorette Party e per essere riuscite, se non a farla commuovere, a far sorridere la sposa. Futura.

lunedì 18 giugno 2012

Bachelorette Party. Vero. Prima parte, la preparazione.




Organizzare feste di addio al nubilato per le amiche è diventata un’abitudine consolidata. Dopo il finto Bachelorette Party in onore di Emanuela Messina, ne ho organizzato uno vero, cioè, per una vera futura sposa, Emma Caronni, pronta per l’altare e per i fiori d’arancio il 29 giugno.

Tutto è iniziato con una serie di idee che si sono sedimentate nel mio piccolo e danneggiato cervello cercando lo spazio per evolversi. Che cosa le piacerebbe? Quali sono i suoi passatempi preferiti? Che cosa la farebbe rimanere delusa? Come riuscire a mettere insieme le esigenze di quindici persone diverse? Niente panico, spingo le idee ai lati del cervello. L’area prefrontale, già vuota di suo, ha appena subito una miracolosa schiarita nella nebbia costante e fitta. Sono temporaneamente abile, prima che la nebbia torni, il vuoto si può solo riempire. Ce la posso fare.

Primo passo. Procurarsi una lista con le amiche che vorrebbe invitare. Ricordarsi di chiedere numeri di telefono, mail e contatto facebook. Emma aiuta il mio povero limitato cervello e mi prepara una lista in excel, con tutte le informazioni. Fiuuuuuuuuuuuu. Fatto.

Secondo passo. Scrivere e-mail a tutte le amiche con un programma generale. Chiedere se sono d’accordo con le proposte fatte e di farsi avanti con ulteriori proposte. Prendere il foglio excel di Emma e iniziare a segnare con delle crocette i si e i no. Sembra facile.

Terzo passo. Ideare il programma generale. Si vede che la nebbia si è diradata bene perché lo stream of consciousness fluisce che è un piacere. A pranzo con la mia amica Barbara Ceni parliamo di una festa di addio al nubilato cui lei ha partecipato la sera precedente e mi fornisce una dritta geniale, che si incasella perfettamente nel programma che mi si sta disegnando tra la fuliggine. Le amiche della sposa le hanno regalato un abito da indossare la sera della festa. Fantastico. La giornata si svilupperà in questo modo: una merenda a base di frutta e cupcakes, la sua passione, a casa mia, in qualche modo butterò fuori mio marito. Una seduta di shopping da Zara, dove Emma sceglierà un vestito che le regaleremo. Vestizione prima della cena con look a tema e make up. Cena. Scrivo e comunico.

Quarto passo. Ringhiare come un cane rabbioso alle caviglie di ogni singola amica per ottenere risposte. Nel frattempo il flusso di coscienza mi ha portato l’idea di un book di ricordi. Ognuna dovrà compilare un “questionario” da me preparato e inviarmelo insieme ad una foto con la futura sposa. Una fatica vera. Non tutte sono come me sempre attaccate a computer, Iphone e Ipad. Non tutte sono addicted. Beate loro. Ma devo stampare tutto, ritagliare i margini e incollare. Il  mio cervello fa una cosa alla volta, non gli si può chiedere di più. Ma ce la posso fare.

Quinto passo. Pensare ad un outfit sufficientemente ridicolo con cui Emma si presenterà da Zara per lo Shopping. Una maglietta con una scritta. Un velo artigianale. Dei palloncini bianchi legati ai polsi. Pensare alla scritta, creare velo, gonfiare palloncini.

Sesto passo. Ordinare i cupcakes. Passare al setaccio tutta Milano per trovare i più buoni, quelli meno pesanti, con le migliori decorazioni e il più grande assortimento di gusti. Difficile cacchio. Per me che non amo i dolci ancora di più. Ne devo ordinare tanti, vanno preparati, devo farlo con un po’ di anticipo.

Settimo passo. Pensare al ristorante, prenotare tavolo, accordarsi per il menù e per il vino, pensare a qualcosa da fare durante la cena. La nebbia mi dà tregua perché mi viene un’illuminazione da Premio Nobel. Il mio amico Claudione ha una bellissima enoteca in zona Corso Como, il Cinghiale Rosso, il nome è di buon auspicio. Lo chiamo e lui è delizioso. Ci riserva tutto il locale per la serata, mi fa preparare un menù su misura e mi concede di poter usare il biliardino in dotazione al ristorante. Faremo un torneo. Che ovviamente, per dormire sonni sereni, dovrò vincere scegliendo la socia migliore. Non si concede nulla.

Le ragazze sono fantastiche. I questionari compilati fioccano, le foto anche. Tutte offrono aiuto e collaborazione. Siamo una squadra. Emma’s Bachelorette party sarà un successo. Ne sono sicura. Lei non si aspetta nulla. Andranno e prenderla e la benderanno. Speriamo che non vomiti in macchina. La maglietta è stampata, “I’m getting married….to a Saint!!”, ho ritirato i cupcakes e li ho disposti sull’alzatina che la mia amica Brigida Forese mi ha prestato. La frutta c’è, il mercato del giovedì di via Calvi non tradisce. Il velo trash è fatto, mi ha aiutata mia mamma, il genio, cucendo un finto tulle su un cerchietto di finte perle. Il book è ultimato e il ristorante è prenotato. Lo spumante è al sicuro in frigorifero. Ho la scorta di caffè, anche se è previsto un caldo porco e ho comprato le gerbere gialle, il suo colore preferito. Sono pure riuscita a scaricarmi una compilation con tutte le canzoni che legano Emma ad ogni amica. Il questionario mi ha aiutata. E ho stampato il tabellone per il torneo di biliardino. Che in un modo o nell’altro vincerò. Ci siamo. Che il bachelorette party abbia inizio…

lunedì 11 giugno 2012

Addio al nubilato. Finto.



Tutto è iniziato come fosse un party d’inizio estate. Poi, quel genio di Francesca Cois, che nulla ha da invidiare (neanche la statura!) al genio per eccellenza, mia mamma, ha virato con forza verso una destinazione decisamente più glamour. Un po’ come essere al timone di una barca a vela, a zonzo per le Baleari, e navigare in acque calme verso la tranquilla e famigliare Minorca. E poi essere investite da un vento favorevole, che fa cazzare la randa, spiegare le vele e andare verso Ibiza, a trasgredire. Insomma, il party di inizio estate si è trasformato in un addio al nubilato. Finto.

L’occasione è nata dall’imminente compleanno di Emanuela Messina, detta Emi Emi. Trentacinque primavere da festeggiare. Ma perché limitarsi ad un banale birthday party? Il genio ha quindi avuto il guizzo creativo, ha coinvolto un altro piccolo genio in erba dal promettente futuro, Elisa Tomasoni, la vera new entry nell’Olimpo dei geni, e ha messo in moto il circo. Non si festeggerà un compleanno. Ma un addio al nubilato in piena regola. Finto.

Emanuela Messina non sta affatto per sposarsi. Manca la Verga. Che non è una metafora penica, assolutamente. E’ un nome in codice, tanto per capirsi. Ai blocchi di partenza si sono presentate le amiche più strette, Barbara Lorenzi, Francesca Ioan e la neo sposa Cecilia Maggioni a cui si sono aggiunte due delle sue sorelle (della neo sposa), la figlia duenne Pipinus, e i due geni. Le avvisaglie del cambiamento di programma hanno iniziato a propagarsi nell’etere già dal primo pomeriggio. Così come ha iniziato a propagarsi il terrore di Emanuela Messina dopo aver preso coscienza di essere nelle mani di Francesca Cois, mie e della new entry dal promettente futuro Elisa Tomasoni. “Quali terrificanti garionate mi accoglieranno?”

A pensare alle garionate è proprio Francesca Cois che fa un giro nel quartiere cinese per fare incetta di trasherie varie tipo velette, mollette con i fiori, guantini di rete e due maschere di cartone. Una della Regina Elisabetta, fresca di Giubileo. L’altra del Principe Filippo. Un nome a caso. A pensare a guantini di altro materiale e gadgets di ogni tipo è Elisa Tomasoni, che, investita del sacro ruolo, lo compie al di là di ogni aspettativa. Io mi premuro di trovare un claim per la festa. Ce l’ho, immediatamente. “Dick Dick where have you been? I’ve been up to visit the Queen!”. E, naturalmente, mi occupo del banchetto. A base di pesce.

Giunge il momento. La festeggiata varca la soglia di casa. Ci sono foto della Regina e del Principe Filippo dappertutto. Il mio claim, rigorosamente stampato, impazza in ogni angolo. 


Abbiamo tutte un fiore colorato in testa. Ci si butta sul vino. E sul pesce. Pipinus si tiene stretta alle gambe della mamma perché ha paura della Regina, “la signora Butta e Cativa”. Poi inizia il carosello dell’apertura gadgets e l’angolo del Confessionale in cui si affrontano temi che toccano i grandi valori della vita. L’amore. L’amicizia. I nasi grossi. La beneficienza. La troppa emozione. In un attimo sono le tre del mattino. Pipinus stramazza, i locali sono chiusi e la finta sposa è appagata. Il suo primo addio al nubilato è stato un successo. Siamo una squadra. Chi volesse contattarci per organizzare feste di finto addio al nubilato è invitata a farlo. Buon Compleanno Emanuela Messina. Dagli un’altra chance.

mercoledì 6 giugno 2012

Pollice marrone. Quasi verde.



La mia amica Gaia Aquino è la regina dei fiori. Non quella delle carte, sebbene anche a Scopone Scientifico sia una vera regina. Lei è l’esperta mondiale di gardening. Ha studiato giurisprudenza, in realtà, e il suo sogno è quello di fare il magistrato. Sua mamma, Gabriella Zanetti detta Zanetti, racconta che da piccola Gaia Aquino aveva la mania di mettere tutto a contratto con tanto di firma in calce: “Io, Gaia Aquino, mi impegno a mettere in ordine la cameretta per fare felice la mamma”. Sono sicura che, se lo volesse davvero, Gaia Aquino, detta Gughi o, per gli amici, Gu, farebbe il magistrato. Però la passione più grande che ha è, senza dubbio, quella per i fiori.

Ghughi è una delle cinque persone più globalmente intelligenti che io conosca. Per fare un esempio banale, una volta abbiamo fatto una gita, lei e io, nella sua casa in collina. Tra le chiacchiere infinite e le notti a scambiarci segreti inconfessabili, che, tra il resto, è uno dei ricordi più belli della nostra amicizia, c’è pure scappata qualche partita a Trivial Pursuit. Non c’è mai stata gara. Avrò vinto si e no una partita su dieci. E solo perché ho più memoria di lei e ho avuto culo nell’imbroccare domande che conoscevo. Ma la sua intelligenza analitica e la sua capacità nel ragionamento mi hanno annichilita. Si vede che al liceo classico, rispetto allo scientifico, il sillogismo aristoteliano viene conficcato in testa dalla quarta ginnasio alla terza liceo. O, almeno, è quello che mi sarebbe piaciuto credere per accettare la bruciante sconfitta. Sono pure riuscita ad accusarla di avere imparato a memoria tutte le domande e tutte le risposte perché il gioco era suo. Invece no, semplicemente, è più intelligente. Porco cacchio.

Un pomeriggio di primavera, constatata la mia assoluta propensione verso un pollice di colore nero, nero pece, dopo anni di piante morte rinsecchite, odore di fiori marcescenti e cadaveri di tronchi in giro per la casa e per il balcone, mi sono decisa a posare le armi, arrendermi e chiedere aiuto a Gaia Aquino. E’ arrivata pimpante, con metro alla mano e quel fare sicuro di chi sa il fatto suo. Ha dato un’occhiata e mi ha dato appuntamento per il sabato successivo. Direzione mercato dei fiori. Quando ho varcato la soglia del mercato mi si è mozzato il fiato. E ho capito subito che l’illuminazione celeste mi aveva inondata. Il mio pollice sarebbe certamente diventato verde. Abbiamo scelto edera e dipladenia. E non abbiamo saputo resistere ad un mazzo di peonie rosa recise. Dieci per ciascuna. Con un profumo che ancora adesso mi suscita una sorta di reverie da madeleine proustiana.

Ma il grosso del lavoro doveva ancora venire. Abbiamo passato un intero pomeriggio più un’altra mezza giornata a mettere argilla, terriccio, invasare, concimare, bagnare. Le nostre unghie erano sporche come quelle di un minatore a caccia di carbone. Il pavimento del balcone e della cucina un campo di battaglia. Ma, finalmente, avevo i miei fiori. Gaia Aquino, detta Gughi, e per gli amici, anzi solo per me, Gu, ha compiuto il miracolo. I miei fiori sono ancora tutti vivi, stanno crescendo, sono sani e forti e me ne prendo cura come fossero animaletti da nutrire e abbeverare. Se le altre mie amiche mi vedessero non potrebbero credere alla trasformazione. Penserebbero ad un mio ologramma proiettato sul balcone da qualche strano marchingegno tecnologico. Il mio pollice nero, nero pece, è diventato marrone. E presto sarà verde. Ora sono pronta per una nuova sfida a Trivial Pursuit.




venerdì 25 maggio 2012

Il lancio del bouquet

Il primo tentativo. Sull'albero. Operazioni di recupero.


Il secondo tentativo. Bouquet preso. 



Manu Nico presto sposa.



L’uomo di casa



La mia lista di desideri di bambina non è mai stata molto lunga. Ho sempre avuto tutto, cioè, non proprio tutto, ma avevo le cose più importanti. Senza scadere in un patetico, inverosimile e sdolcinato elenco, per me le cose importanti equivalevano a una famiglia felice, con una mamma geniale, un papà d’altri tempi e tre sorelle bellissime. E’ pur vero che alle medie desideravo tantissimo le Nike All Court bianche con il baffo azzurro o le felpe della Naj Oleari che avevano tutte le mie compagne di classe. Ma le avrei avute a Natale. E mi bastava, era un gran regalo. Ero una bambina felice circondata da amore, qualcosa che nessuna ricchezza può comprare.

La mia lista dei desideri di bambina felice circondata da amore e non molto lunga ha sempre incluso due cose che avrei voluto una volta diventata grande. Una cassetta degli attrezzi tutta per me. E un forno a legna per preparare deliziose pizze. Sono sempre stata un maschiaccio, in effetti. Non amavo particolarmente le bambole, i vestitini rosa o giocare a “negozio”. Anzi, ero piuttosto “truculenta”, inseguivo le lucertole, mi arrampicavo sugli alberi per rubare i fichi al vicino, mi scapicollavo in bicicletta per il giardino e chiudevo le mie sorelle in garage o in cantina per sentirle frignare e poi coccolarmele.

Ma c’erano due cose in grado di placare la mia furia scatenata. Guardare la cassetta degli attrezzi del mio papà e il modo divino in cui li maneggiava, riparando qualsiasi cosa, e osservare mio zio Maci, nella sua villa al lago, mentre infornava pizze nel forno a legna. Essendo la prima di quattro figlie femmine mi sono sempre un po’ sentita il maschio di casa. Non a caso, il mio idolo era Lady Oscar. Mica Candy Candy o Georgie. Roba da ragazzine piagnucolose. E sono cresciuta assorbendo insegnamenti paterni e zieschi in fatto di riparazioni domestiche e farcie per pizze divine.

Quando mi sono sposata, non mi sono affatto rassegnata ad assumere il ruolo della moglie perfetta, anzi. Secondo i dettami del comune pensare, la moglie perfetta è colei che cura la dimora nuziale come fosse un gioiello prezioso. Si sveglia all’alba per fare i mestieri, lava, stira, passa lo straccio, dà la cera al parquet, bagna le piante, prepara la colazione al marito, lo bacia prima di andare in ufficio e torna in tempo per preparagli la cena. Niente di tutto ciò. In un’altra vita ero sicuramente un Hooligan, un perfetto Hooligan. La nostra casa odora di fiori un po’ andatelli. Sotto il letto ci sono gatti di polvere. Sopra il letto, quello degli ospiti, un intero armadio di vestiti stropicciati. In cucina, macchie di sugo sulle pareti, incrostazioni sul piano cottura e, talvolta, un calzino o un paio di mutande. Per non vomitare sui tasti, evito di descrivere il frigorifero. Un totale disastro. L’unica cosa che mi salva dal completo fallimento è il fatto di saper cucinare. Anche se più che cucinare secondo la tradizione, invento e sperimento. Però, in tutto questo,  sono un perfetto uomo di casa.

Un paio di anni fa, per Natale, mio papà mi ha regalato la tanto agognata cassetta degli attrezzi. Gli occhi mi brillavano molto di più di quando sono riuscita a comprare un paio di Manolo Blahnik originali a soli 150 euro. Un sogno che si realizza. Chiavi inglesi, brugole, cacciaviti, chiodi, martello, avvitatore e pinze. E poi, lui, il re degli attrezzi, il trapano.

Il perfetto uomo di casa è colui che si districa con disinvoltura tra le faccende domestiche “da maschio” tipo cambiare la lampadina quando si è bruciata, siliconare la vasca da bagno o il cesso quando perdono, cercare di capire come mai Sky, la rete Wifi o il Pc si sono impallati, martellare chiodi alle pareti per appendere un quadro o trapanare il muro per posizionare un nuovo attaccapanni. Niente di tutto ciò. Il mio uomo di casa, mio marito, non fa niente di tutto ciò. E quando fa casino con i telecomandi e sul suo bel plasma vede tutto nero con una frase intermittente “assenza di segnale”, mi chiama, con voce lamentosa, perché c’è la Juve e non riesce a sistemare il canale. Un disastro. Alle faccende domestiche “da maschio”, ci penso io. A quelle da femmina, Susy Capezzolo.

Quest’estate, in montagna, userò per la prima volta il mio nuovissimo forno a legna. L’ho finalmente avuto e sono elettrizzata. Non manca nulla. Ho la mia cassetta degli attrezzi. Ho il mio forno a legna con tanto di barbecue. Yum. Le felpe della Naj Oleari sono introvabili, se non in qualche vecchio garage o in qualche negozio vintage. Ma le Nike All Court con il baffo azzurro ce le ho. Le ho ricomprate appena le hanno fatte di nuovo. E sono ancora circondata di amore.


lunedì 21 maggio 2012

Damigelle. E testimoni.


Il matrimonio della propria sorella è un avvenimento che richiede ben più di una review scritta. Un po’ come l’album delle foto. Ci vorrebbe un album di reviews. Con la carta velina dopo ogni pagina. Nel post-sbornia da “wedding day”, reale e metaforica, nella mia mente annebbiata da alcol e emozioni iniziano a dipanarsi i fatti salienti e le immagini prendono forma. E il primo fatto da raccontare, perché è quello più nitido nella mia testa, è il delirio assoluto che regnava nella tenuta Maggioni, poche ore prima del si.

Tre sorelle più due testimoni. La notte prima del grande giorno dormiamo tutte insieme in mansarda. C’è anche Carolina, la damigellina porta fedi, che la sposa ha avuto nel peccato, due anni prima di maritarsi con il suo papà. Carolina, detta Pipinus, è super eccitata, fa i capricci da stanchezza infinita e tiene tutti svegli. Comincia ad albeggiare. Ci siamo. E’ il momento dei preparativi.

Come da tradizione le tre sorelle si vestiranno tutte uguali. Al mio matrimonio era stato così, tre bellissime damigelle di bianco vestite. L’abito è stato scelto qualche mese fa, a Londra, in un negozio low cost. Sara e io ci siamo caricate sulle spalle la responsabilità. “Tanto siamo fighe, qualsiasi cosa ci mettiamo andrà bene, e poi al massimo lo impreziosiamo con qualche accessorio chic”. Detto fatto. Tre abitini verde acqua da 15 pounds cadauno. Veramente cheap, ma chissenefrega, tanto siamo fighe. Non lo proviamo, c’è troppa coda ai camerini. Tiriamo su tre taglie compatibili e via, un pensiero in meno. La cosa grave è che quell’abito verde acqua in pizzo da 15 pounds cadauno non lo abbiamo mai provato. O forse si, ma senza l’ufficialità dell’outfit completo. Tanto siamo fighe.  

Ok ok, niente panico. Sono le 11.45. Dopo essermi smazzata Pipinus per due ore giocando a birilli e raccontando Biancaneve, Cenerentola, la Sirenetta e Pollicino mentre genitores accoglievano fioristi e gente varia e le altre sorelle cucivano il coprispalle nuziale e stampavano mappe per i parcheggi  con la sposa al trucco e parrucco, finalmente riesco a buttarmi in doccia e provare, per la prima volta, il mio abito da damigella. Sono serena, c’è margine.

Oh. Mio. Dio. Non posso credere a quello che lo specchio a figura intera mi rimanda. Oh. Mio. Dio. Mia sorella mi ha dato il compito di salire sull’altare a leggere la prima lettura, dal Cantico dei Cantici. Oh. Mio. Dio. Sembro una prostituta. E neanche come una di quelle escort del Ruby Gate, magari. Oh. Mio. Dio. Non posso, nel modo più assoluto, andare a leggere la preghiera vestita in quel modo. Sarei radiata immediatamente dalla chiesa e dal Paradiso. E’ mezzogiorno, porca di quella Ruby. Che fare? O ci vestiamo diverse o dobbiamo trovare al volo una soluzione. Oh. Mio. Dio.

Un piano B in effetti esiste. Il meraviglioso abitino di H&M Conscious Collection. Quello bianco e rosa senza spalline con corpetto in sangallo. In un momento di lucidità lo avevo anche valutato come alternativa alla “cheapperia” verde acqua. E ne avevo anche fatto comprare uno a Sara, 19.90 €, al massimo si cambia. Il piano B ora sembra una realtà. Ma c’è un problema, abbiamo un solo abito in quel momento, quello di Sara. Il mio è nell’armadio a casa a Milano ma se dovessi chiamare mio marito, farglielo cercare e portarmelo, andremmo lunghe. E poi ne manca comunque un altro. Niente panico. Tanto siamo fighe.

Si avvicina la testimone, Francesca Cois, serafica e problem solving. Di solito è il mio pet name, problem solving intendo. Ma sono troppo agitata. E’ lei la nuova regina. “Ale” - mi dice “Andiamo da H&M e ne prendiamo altri due”. Il punto vendita più vicino a Rho è il Portello. Mi rimetto i jeans e la maglietta. Sono le 12.35. Il matrimonio è alle 15. C’è margine. Poco ma c’è. Ce la possiamo fare.

Perdonatemi, se racconterò i prossimi attimi deliranti senza  precisione giornalistica. Troppa la furia in corpo per ricordare esattamente la sequenza degli avvenimenti. Usciamo di casa come due indemoniate. Più io che Francesca, in effetti. Mio papà, Enore Giovanni Battista Maggioni, già in ansia di suo, ci vede schizzare fuori di casa e impallidisce. La sposa e la sua truccatrice ci guardano incredule. Tutto a posto. Si parte, direzione Portello. Ovviamente il navigatore non funziona. Tiriamo fuori l’Iphone. Ci concentriamo. Io guido e Francy naviga. In qualche modo si fa. Un proiettile grigio chiaro in tangenziale. Mi immagino la visuale dal satellite. E rido, mentre impreco all’auto davanti per la lentezza esasperante.

Basta così. Diventerei prolissa nel raccontarvi l’ingresso da H&M, le taglie dei vestiti trovate subito, due paia di ballerine, già che ci siamo, la cassiera che ci vede sudate e con gli occhi impallati e ci chiede se stiamo bene, gli insulti allo stronzo che mi ha parcheggiato appiccicato e mi ha incastrato la smart, la tipa in motorino che stavo per falciare, l’arrivo trionfale nella tenuta Maggioni, la fase trucco-capelli che neanche Usain Bolt. Ce l’abbiamo fatta. Sono salita sull’altare con gli occhi gonfi post ingresso in chiesa della sposa al braccio di Enore Giovanni Battista Maggioni e con Pipinus accanto. Ho la voce un po’ spezzata. Ma ho il mio abito confetto bianco e rosa. Con corpetto di sangallo. Davanti la sposa, bellissima e con uno sguardo che non le avevo mai visto. Di fianco a lei, le altre due damigelle. Con lo stesso abito confetto bianco e rosa con corpetto di sangallo. E con uno sguardo di incoraggiamento. E alla mia destra le testimoni. Una in particolare. Che mi strizza l’occhio. Tanto siamo fighe.



lunedì 14 maggio 2012

Baby Shower


Una mattina appena sveglia, in uno dei miei deliri imprenditoriali, mi era venuta in mente la fantastica idea di organizzare Baby Shower. Occupandomi, per lavoro, di una rubrica che si chiama Baby Vip e che tratta, in lungo e in largo, dei figli del vippame vario, dai tacchi di Suri Cruise ai piccoli eredi di Principi o di presidenti francesi, sapevo benissimo cosa fosse un Baby Shower e mi sentivo carica e in grado di “mettere su” una piccola impresa. Come tutti i deliri partoriti dalla mia mente in fermento, in meno di due secondi la mia brillantissima idea si è sgonfiata. Il Baby Shower è una festa tipicamente americana con cui si celebra la futura nascita di un bebè. Letteralmente significa “fare una pioggia di regali” sia per la futura mamma che per il nascituro e la gravida si contorna delle sue amiche più care, di torte di pannolini e di cicogne di pezza.

L’idea si è sgonfiata perché il Baby Shower non è Halloween. E in Italia c’è poca cultura in tal senso dovuta alla superstizione prenatale. Pur non avendo concorrenti sul mercato, fallirei in una settimana. Poveina io. E pensare che prima di questa brillantissima idea ne avevo avuta una anche migliore. Organizzare feste per i funerali. E sarei fallita in un giorno.

Il mio futuro da imprenditrice è nebuloso e vago. I miei business plan sono sotto il letto insieme ai gatti di polvere. Niente da fare. Si continua a scrivere. Victoria Beckham e Angelina Jolie non mancheranno di farmi guadagnare il pane quotidiano, che tra l’altro non mangio più perché ho eliminato i lieviti. Tutto questo non mi ha impedito di partecipare, per la prima volta, a un vero Baby Shower made in Italy.

La mia amica Viki è in attesa di Fagiolo. O Fagiola. Non ha voluto sapere il sesso quindi, momentaneamente, il suo nome è un legume. Un legume che tra pochissimi giorni si chiamerà Vittoria o Filippo. Viki è una pazzoide vera. Quanto me, se non di più. Anzi, sicuramente di più. Ha vissuto per un periodo negli States e ne ha acquisito usi e costumi. Come farsi mancare un Baby Shower?

Ci siamo trovate tutte a casa di Marta, detta Tata, la migliore amica di Viki e la promotrice dell’iniziativa. Ci ha accolto un buffet di meravigliose torte fatte in casa e di stuzzichini vari. Tutto a base di lievito, ahimè, ed essendo una festa in onore di una signora incinta e di un fagiolo non c’era neppure una goccia di alcol dove poter affogare la mia astinenza forzata da agenti lievitanti. Viki era radiosa, bellissima, come al solito (ha fatto la “Schedina” a Quelli che il Calcio, mica pizza e fichi!) e tutta pancia.

Poi ha fatto il suo ingresso la torta di pannolini seguita da una serie di oggetti e utensili a misura di neonato. E per finire, tutte in cerchio abbiamo sottoposto la futura mamma ad un fuoco di scabrosissime domande su aneddoti del passato recente e remoto. Viki era perfettamente consapevole che io ero lì, in agguato, pronta a cogliere qualsiasi sfaccettatura da spiattellare sul blog. Nulla di così scandaloso, in verità, ma ho promesso di non raccontare. Giuringiuretta. Evviva l’innocenza dei bambini. Evviva i Baby Shower.

mercoledì 9 maggio 2012

Un proiettile azzurro. Fosforescente.


Parigi. Maggio 2012.

Ei fu siccome immobile. Un 5 maggio a Parigi, tres chic. Succede che mia sorella Cecilia si sposa. Succede che si decide di combinare il suo addio al nubilato nientepopodimenoche a Parigi. La formazione titolare vede la festeggiata in palleggio in diagonale con la sorella maggiore, cioè io. Al centro le due sorelline minori, Sara e Paola e in posto quattro le due testimoni, Francesca Cois e Francesca Bolzoni, detta Keke.

L’inizio è di quelli con il botto. Nessuna bomba, grazie al cielo, solo una serie di congiunture negative. Il treno RER per il centro non parte. Si prende una navetta per un altro terminal dove ci sarà un mezzo che ci traghetterà chissà dove. Sulla navetta c’è un gruppo di ragazzi italiani. E’ vero che il mese dell’uccello è finito però uno di loro ha un sorriso incredibile. Belsorrisotiamo. Per innata generosità e per essere la tardona della combriccola lo faccio notare alle altre che approvano con un cenno di assenso.

La seconda congiuntura negativa è che qualche mariuolo ruba la valigia a Francesca Bolzoni detta Keke. Scatta la caccia al ladro che fa sfumare l’approccio con il gruppetto capeggiato da Belsorrisotiamo che però si avvicina per offrirci il suo aiuto mentre stiamo cercando di denunciare il furto mixando francese, inglese e spagnolo. Poi qualcuno ci chiama: “Go Go”! C’è un treno che parte, corriamo come pazze, ci infiliamo sotto il tornello e riusciamo a salire. Belsorrisotiamo è scomparso.

Il giorno dopo parte “l’operazione terremotata” che consiste in una colletta destinata allo shopping d’emergenza per ricomprare almeno le mutande alla povera Francesca Bolzoni detta Keke. E poi la congiuntura diventa improvvisamente positiva. Belsorrisotiamo compare con un’aura luminosa in un mercato coperto. E’ proprio lui, insieme ai suoi amici nerd. Ci saluta, una per una. Non riusciamo a crederci. Le coincidenze non esistono.

La domenica, oltre all’attesa per i risultati del ballottaggio Hollande-Sarkozy, è dedicata al turismo, quello vero. Torre Eiffel e Montmartre. Neanche a dirlo. Davanti al Sacro Cuore c’è la solita folla. Procediamo appaiate a braccetto, per non perderci. E poi Francesca Cois, al mio braccetto, scorge tra l’ammasso di corpi gli amici nerd. Belsorrisotiamo è lì, nei dintorni. I nostri cuori cominciano a battere all’impazzata, cerchiamo con lo sguardo le altre. In un attimo tutto si ferma. Sembra di essere dentro a un film muto in bianco e nero. Si vede solo un proiettile azzurro. E’ la festeggiata, Cecilia, che risale il vicolo sgomitando fra la gente e facendo quasi cadere una cariatide. Ha un giubbino azzurro fosforescente e la faccia da cinese per il sorriso talmente grande da ridurre gli occhioni a fessure. Urla. “C’è il nostro fidanzaaaaaaaaatooooooo!!!” Intorno a noi il vuoto. Iniziamo a ridere e a gridare come galline impazzite. Ci guardano tutti.

Belsorrisotiamo arriva. Rosso in faccia e con un sorriso imbarazzato. Ci saluta come fossimo vecchi amici, non dice altro e tira dritto. Non lo rivedremo mai più. La città dell’amore ci ha tradite. E invece qualche ora dopo accade l’impensabile. Hollande viene eletto, la folla è in delirio. Arriviamo a casa e accendiamo la televisione per seguire in diretta i commenti a caldo. E, sullo sfondo, quella vecchia volpona di Francesca Cois nota un nerd con la felpa verde. E’ proprio lui, l’amico di Belsorrisotiamo. E’ indubbiamente lui. I segnali sono troppi, il fato si sta compiendo. Sono già sposata, Cecilia si sposa, Francesca Cois è sposata. Ne rimangono tre. Nel destino di chi è Belsorrisotiamo?

giovedì 3 maggio 2012

Nozze d’oro. Più uno.

 

29 maggio 2014

Ciao Ezio. Riposa in pace. La tua piccola e tanto attesa Costanza e' riuscita a conoscerti e adesso sta parlando con te. Il suo angelo custode insieme al nonno Bertaggia. E grazie. Per il tuo sorriso. E per essere stato un marito, un papà, un nonno e un suocero davvero speciale.

1 maggio 1961. Le nozze.

E’ una soleggiata mattina di primavera in Valle di Ledro. Nel piccolo paese di Tiarno di Sotto le campane suonano a festa. Sul sagrato della chiesa giunge la sposa. E’ raggiante nel suo abito al ginocchio. Un’irriverenza per l’epoca. Sorride, si guarda intorno, saluta timidamente. E’ al braccio del suo papà, l’appuntato scelto Angelo Bertaggia, una personalità, lì sui monti. Ad aspettarla all’altare c’è il suo Ezio, emozionato e con gli occhi che traboccano d’amore. Maria Luisa, detta Marisa, incede lentamente verso il suo amato. Evviva gli sposi.

27 gennaio 1934. Il principio.

Fa freddo a Tiarno di Sotto. La neve incappuccia le vette. L’aria è glaciale. In una modesta dimora la stufa a legna e la cucina economica scaldano, per quanto possibile, la stanza spoglia. Teresa ha appena dato alla luce il suo secondo figlio. Un altro maschio. Lo hanno chiamato Ezio. Una nuova vita si affaccia nella valle che albeggia. Angelo e Teresa Toniatti non sono mai stati più felici. Evviva i figli maschi.
17 giugno 1935. L’incontro.

Dopo il lungo rigore invernale e una tiepida primavera finalmente l’estate è arrivata. Il giovane appuntato scelto Angelo Bertaggia rientra al paese per un breve congedo. E’ diventato papà. Sua moglie Alma ha appena partorito, è una bambina, Maria Luisa. E’ un giorno di festa in valle. E i bambini più grandi si recano in pellegrinaggio a casa Bertaggia per dare il benvenuto alla nuova nata. C’è anche un fanciullo di poco più di un anno che tiene saldamente la mano alla sua mamma. Si chiama Ezio. Si affaccia curiosamente al bordo della culla puntellandosi sui piedini malfermi. Maria Luisa emette un vagito. Il futuro è scritto. Evviva i primi incontri.

1 maggio 2012. La polenta di patate.

Gli anni di matrimonio sono cinquantuno. Ezio scherza, rinnovando una battuta che negli ultimi anni tiene banco il primo giorno di maggio. Finge di chiedere al figlio avvocato quanti anni di galera si debbano scontare per omicidio. “Trenta” risponde sicuro. “Ecco” - si rivolge a Marisa – “se ti avessi uccisa subito sarei fuori da più di vent’anni”. Si ride. Di gusto. Come di gusto si mangia la polenta di patate che lo stesso Ezio prepara per festeggiare l’anniversario. Evviva i piatti tipici.

1 maggio 2011. Le nozze d’oro.

C’ è grande fermento in paese. Un capannello di gente si raduna nella piazza principale per prendere parte all’evento. I coniugi Toniatti stanno per celebrare cinquant’anni di matrimonio. Tondi tondi. Il banchetto nuziale è allestito. Con tanto di cori che invocano “bacio bacio”. E prima ancora c’è la cerimonia in chiesa. Un vero e proprio rinnovo dei voti. Ci sono i figli, i nipoti, i generi, le nuore e i consuoceri. E ad accompagnare la sposa all’altare c’è ancora il suo papà. Evviva il centenario appuntato scelto.

Oggi. L’amore eterno.

I coniugi Toniatti sono i miei suoceri. E io, forse perché vivono a 200 km di distanza, li adoro. Hanno avuto 5 figli, Tiziana, Michele, Giovanni, Raffaella e Francesca. Hanno 8 nipoti, Giacomo, Dea Virginia, Valentina, Gabriele, Leonardo, Sandra, Alessandro e l'ultima arrivata, Costanza Alma Teresa, in onore alle mamme di Ezio e Marisa. Ezio è un brontolone cronico, recita a memoria le poesie imparate alle elementari interrogandomi regolarmente perchè suppone che io le sappia tutte (all'inizio sorridevo, annuivo e tiravo a indovinare biascicando un Dante o un Petrarca che vanno sempre bene!), racconta aneddoti di guerra e sciorina una conoscenza storica impeccabile. E’ impegnato in politica, costruisce case, tifa il Milan e fa una polenta di patate da leccarsi il baffo fresco di ceretta. Marisa è una brontolona cronica, è una ex maestra elementare, ha una memoria elefantiaca, racconta con occhi sognanti della sua infanzia scandita dalla bora triestina, cucina che è una meraviglia e ha un’energia che io neanche a quindici anni. Litigano, si beccano, discutono, si tengono il muso, gridano. Ma si amano. Di quell’amore raro e meraviglioso che, è il caso di dirlo, dura per sempre. Evviva. Evviva e basta.