venerdì 8 novembre 2013

...ma guarda e passa...


Allora, visto che qualcuno sembra aver gradito e visto che ci ho preso gusto, adesso vi beccate pure il canto III dell’Inferno e, soprattutto, la rivelazione di una delle più celebri citazioni “fake” della Divina Commedia. Per buona pace del mio stomaco delicato.

Il canto III è quello dove c’è la porta dell’Inferno e quell’anafora martellante che la accompagna:

“PER ME SI VA NE LA CITTA’ DOLENTE
PER ME SI VA NE L’ETTERNO DOLORE
PER ME SI VA TRA LA PERDUTA GENTE”

Mio suocero, quasi ottantenne, recita ancora a memoria e con malcelato orgoglio le tre terzine che riportano i nove versi scritti sopra la porta infernale. E quando gli faccio la parafrasi al volo e gli spiego le figure retoriche si illumina in uno sguardo d’ammirazione per quella nuora un po’ cretina che si è imparata la lezioncina per fare colpo su lui.

Nel vestibolo dell’Inferno soggiornano gli Ignavi, coloro che per viltà non seppero operare il bene ma che non sono neppure dannati per non avere commesso nefandezze tali da meritare l’Inferno vero e proprio. Parafrasando, gli ignavi sono le banderuole, quelli che nella vita non prendono mai una posizione e che vanno dove tira il vento e dove a loro più conviene. Ne conosco tanti. Il contrappasso è esemplare: corrono senza sosta dietro ad un’insegna e sono punti continuamente da fastidiosi insetti che rigano di sangue il loro volto. Sangue che, misto a lacrime, nutre una schiera di vermi ai loro piedi. Disgusto vero. Meno male che ho consumato un light lunch.

Tra gli ignavi famosi c’è “colui che fece per viltade il gran rifiuto” tornato in auge l’11 febbraio del 2013 dopo le dimissioni di Papa Benedetto XVI. Il rifiutante in questione è - come ben saprete dopo il bombardamento mediatico della rinuncia di Ratzinger - Papa Celestino V che, abdicando perché non si riteneva all’altezza del ruolo, aprì la strada alla contestata elezione di quel celeberrimo Bonifacio VIII, punito a testa in giù nel canto dei simoniaci, il XIX, e responsabile, secondo Dante, della sua rovina e di quella di Firenze.

Il canto III è anche quello di “Caron dimonio, con occhi di bragia”, figlio dell’Erebo e della Notte, di professione traghettatore infernale. Ma, come dicevo in incipit, è soprattutto il canto di una delle più celebri citazioni “fake” della Divina Commedia.

Quante volte avete sentito citare – alla pene di cane – “Non ti curar di lor ma guarda e passa”, emessa con voce sicura da chi crede di proferire una frase colta per manifestare la propria superiorità. Ad esempio, due ragazze discretamente gnocche passeggiano per il quadrilatero milanese a caccia d’affari. In quella passano due ragazze più bruttine e sicuramente meno evidenti che commentano ad alta voce, pronunciando epiteti non troppo complimentosi nei confronti delle due bellone. Le bellone, invece che replicare, che fa tanto tamarro, tirano i dritto e si guardano compiaciute strizzandosi l’occhio e dicendosi vicendevolmente nonticurardilormaguardaepassa con tanto di pacca sulla spalla e sorriso di soddisfazione. Ecco che sale il rigurgito nonostante il light lunch.

I versi 49-51 del canto III dell’Inferno recitano esattamente:

“Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa”.

Non ragioniam di lor. Non ragioniam di lor. Ma guarda a passa. Virgilio sta spiegando a Dante chi siano gli ignavi, quale sia la loro pena e perché i loro lamenti e le loro grida siano così intensi. La storpiatura in non ti curar di lor è ormai, ahimè, entrata a far parte del linguaggio comune. Un po’ come l’imperfetto al posto del congiuntivo. Ormai non ci si scandalizza più a sentire “credevo che era”.

Sto per perdere i sensi come Dante nella chiusa del canto. Stiamo per guadare l’Acheronte, pur non essendo anime prave, “Caron, non ti crucciare: vuolsi così cola dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare”. Non ragioniam di lor.



mercoledì 30 ottobre 2013

Il cavallo di Troia


Oh no. Ci risiamo. Galeotto sembrava proprio un’eccezione. Ben motivata tra l’altro. E ben inframmezzata dal solito trash. E allora che è sto titolo? Un indottrinamento sulla guerra di Troia? La storiella la sanno tutti, Troia è una città, non una parolaccia. Anche se, in fondo, potrebbe pure essere una parolaccia perché il mito racconta che Elena, la donna più bella del mondo, maritata a Menelao, Re di Sparta, si prese una sbandata pazzesca per il bel Paride, secondogenito di Priamo, Re di Troia, e se ne scappò con lui scatenando la guerra. Ovviamente so tutto ciò per aver visto Troy dove il bel Paride aveva lo splendido volto di quella disfunzione ormonale umana di Orlando Bloom. E cerco di non pensare ad Achille/Brad Pitt se no perdo definitivamente il filo del discorso. Ecco.

Il filo del discorso è il cavallo. Quello di Troia. Che non era il cavallo con cui Elena scappò per andare da Paride, cioè, non era il suo cavallo. Ma un ingegnosissimo stratagemma messo a punto da un certo signor Ulisse che finse di rinunciare alla guerra di Troia omaggiando Re Priamo con un cavallo di legno come segno di pace. Peccato che il cavallo contenesse i guerrieri greci più valorosi che, una volta penetrati all’interno delle mura, fecero secchi i poveri e ignari troiani.

Ma tutto questo già si sa. Tornando a Galeotto, quello che sembrava proprio un’eccezione, torno anche al mio amato Dante e a un altro dei canti più celebri del suo Inferno, il XXVI. Tutti conoscono il canto di Ulisse. Persino la nuova Miss Italia, eletta l’altra sera su La7, ha un tatuaggio sopra la tetta sinistra che riporta i versi 119 e 120 del XXVI canto dell’Inferno:

“fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”

Non voglio fare la purista o la snob. Né toglier nulla alla bella Giulia, la nuova Miss Italia, che ha dichiarato di aver scelto di tatuarsi quei versi perché si sente figlia di Dante. Ma giuro, tutte le volte che sento citare la Divina Commedia alla carlona o per sfoggio di erudizione mi viene un urto di vomito. Come quando il dentista usa lo specchietto per tenere ferma la lingua.

Supponiamo che la maggior parte di coloro che leggeranno conosca, pressappoco, “lo maggior corno de la fiamma antica”. Lo do per scontato. Alla domanda del perché Ulisse, “lo maggior corno della fiamma antica”, sia punito insieme a Diomede nella bolgia dei consiglieri di frode, chiunque risponderebbe serenamente e con assoluta certezza: “per aver detto ai suoi uomini “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”, incitandoli a compiere il “folle volo”, oltrepassando le Colonne D’Ercole, limite del mondo esplorabile. Risposta sbagliata.

Il peccato per cui Ulisse è eternamente punito nell’Inferno è proprio il cavallo di Troia. Insieme al furto del Palladio e alle armi di Achille. Nell’ottava bolgia sono dannati coloro che, nella vita, hanno fatto un cattivo uso dell’ingegno. Coloro che hanno adoperato per conseguire con frode il trionfo. Viene punita l’astuzia, l’abuso di intelligenza, la malizia politica. Il cavallo di Troia ne è l’emblema. Poi c’è il furto del Palladio, statua di Atena protettrice della citta di Troia, peccato di cui Ulisse si macchiò insieme allo minor corno de la fiamma, Diomede. E sempre con Diomede, Ulisse portò via per sempre Achille alla povera Deidamia con l’inganno delle Armi. Deidamia, figlia del Re di Sciro Licomede, innamoratasi perdutamente del valoroso Achille, lo aveva travestito da donna e nascosto in mezzo alla corte per sottrarlo alla guerra. Ma i dispettosi Ulisse e Diomede si presentarono a Sciro fingendosi mercanti e mostrando ad Achille alcune armi, risvegliandone lo spirito guerriero che indusse Achille a seguirli abbandonando la straziata Deidamia.

Bene, ricordo a tutti a voi che Achille in Troy era Brad Pitt. Mi si è risvegliato lo spirito guerriero. Grazie Ulisse. Grazie Diomede. Se fosse rimasto insieme alla straziata Deidamia non avremmo potuto sognare per giorni e giorni i bicipiti pompati di Brad.


lunedì 28 ottobre 2013

Galeotto fu il libro e chi lo scrisse


Niente panico. Non copritemi di insulti prima di aver letto. Mi rendo conto che una citazione dantesca come titolo di un post non è affatto da me. Sono in prima linea quando c’è da sfottere quelle noiosone intellettualoidi, vere o presunte che siano, tutte atteggiate a parlare di cultura e a darsi un tono. Molto meglio il low profile, come ho già ripetuto centinaia di volte. Molto meglio parlare di cose leggere, frivole, divertenti. Come dare torto, dopotutto, a chi preferisce leggere qualcosa di poco impegnativo invece che un approfondimento su Dante?

Lo so che non si direbbe. Da buona Brooke Logan della vallata che su Facebook posta solo apprezzamenti per gli Ape Escape, idoli puri di XFactor, e vaccatine varie, è difficile pensare che possa intitolare un post del mio blog - che a sua volta si intitola Rumor has it that, si vocifera che - al verso 137 del V canto dell’Inferno dantesco.

Eppure c’è stato un tempo in cui il buon vecchio Dante accompagnava le mie notti insieme a thermos di caffè. In quel poco spazio che mi rimaneva tra pallavolo, lavoro e discoteca, naturalmente. L’esame di letteratura italiana, alla facoltà di lettere, è quello che ti toglie il sonno, un po’ come il mal di denti. Un incubo. Uno scritto impossibile. Ho visto gente disperata dopo averlo provato 8 o 9 volte. Quasi peggio che l’esame di stato per diventare notaio. O avvocato. Poi c’è la volta che riesci a imbroccare qualche figura retorica o la parafrasi, passi lo scritto e accedi all’orale. Ci sono riuscita al secondo colpo. Una vera fortuna. E il corso monografico di quell’anno era sull’Inferno Dantesco. Unito al programma tradizionale del primo orale di letteratura, ovvero, tutto lo scibile da Francesco D’Assisi ai giorni nostri. Facile.

Ebbene. Arrivo all’orale terrorizzata. Mi boccia dopo 5 minuti esatti. Non so da quale diavolo di parola derivi “Cocito” e tentenno di brutto sulla relazione tra Maometto e l’Antico e Nuovo Testamento. Sono demoralizzata e prosciugata ma mi presento all’appello successivo. Mi fa le stesse, identiche domande. Trenta e lode. Dopo un’ora e mezza sotto torchio. Cammino sull’acqua. Altro che Antico e Nuovo testamento.

La scorsa settimana ci ho dato dentro con la cultura. Anteprima della mostra di Warhol con tanto di imbucamento al cocktail con Mr Brant, proprietario dell’intera collezione esposta e sposato con una gnocca stellare, la ex top model Stephanie Seymour. Un concerto di Beethoven  alla Scala. E una citazione dantesca. Tranquilli, ho ben compensato con Pechino Express, XFactor e, addirittura, Miss Italia su La7. Niente di grave.

Divagazioni a parte, torno sul titolo del post, Galeotto. Oggi, lunedì 28 ottobre, 2013, annebbiata da una cura antibiotica e in procinto di cavare un dente malato per porre fine alla mia sofferenza, ho deciso di essere un po’ Renée Michel, portinaia del numero 7 di rue Grenelle de l’eleganza del riccio. Non ho un gatto che si chiama Lev ma una curiosa rivelazione sulla reale derivazione del consueto modo di dire “Galeotto fu”.

Il canto V è uno dei più belli dell’intera Divina Commedia. E’ il canto di Paolo e Francesca, quello di “Amor ch’a nullo amato amar perdona”, quello de “La bufera infernal, che mai non resta” e di “Quali colombe dal disio chiamate”. Poesia pura. Renée Michel ha i brividi.  Ma Galeotto, chi era?

Paolo e Francesca stanno leggendo la storia di Lancillotto e non riescono a trattenere il loro impeto amoroso quando arrivano al punto in cui Lancillotto si innamora della regina Ginevra.

Quando leggemmo il disiato riso
Esser baciato da cotanto amante
Questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi baciò tutto tremante.
Galeotto fu il libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante”.

Galeotto non è altri che Galehaut, nel ciclo arturiano il siniscalco della Regina Ginevra, moglie di Re Artù, che stimolò Lancillotto e Ginevra a rivelarsi il proprio amore. Il libro, nella trasposizione dantesca, assume quindi la funzione che fu propria di Galeauth: fare si che Paolo e Francesca, cognati, cedano alla furiosa passione d’amore e vadano incontro alla propria sanguinosa e infernale sorte.

Giuro che ho finito. Tra poco inizia Beautiful.

mercoledì 2 ottobre 2013

Mal di testa? Caffè al limone


Lesson number one. Quest’estate, la mia amica Cristina e io, abbiamo avuto la brillantissima idea di iscriverci al FCE, corso di inglese del Comune di Milano di livello 9/10. Ci siamo informate, dopo aver superato l’esame del Trinity 8 a giugno, quest’anno abbiamo i requisiti necessari per poter accedere al First. Potremo sostenere l’esame per agguantare il First Certificate. Mica pizza e fichi.

Partiamo cariche, anche se siamo perfettamente consapevoli del gravoso impegno che ci siamo accollate, due sere a settimana dalle 20 alle 22. Cri tenta di bigiare la prima lezione ma poi il senso di colpa prevale e si presenta. We are ready to start!

Siamo una quindicina, disposti a ferro di cavallo. L’insegnante ci chiede, uno per uno, come mai abbiamo scelto il first. Io sono l’ultima, ho tutto il tempo per pensare una risposta originale. Sembrano tutti secchionissimi, mi sento a disagio di brutto. Parlano sciolti, sono disinvolti, riescono a dialogare sorridendo. L’emicrania che latita dalla mattina inizia a montare pesantemente. E’ il turno di Cri poi tocca a me che dico che “I want to improve my english for travelling because when I am abroad it’s a disaster”. Lo pronuncio peggio di Aldo, Giovanni e Giacomo a lezione da Roy Hodgson a Mai dire Gol. Quello sketch di “the pen is on the table”, per intenderci. Il senso è che quando sono all’estero e, per esempio, la hostess mi chiede se voglio tea or coffee, io chiudo il cervello e rispondo “yes”. Il senso è che ho scelto il FCE 9/10 perché spero di poter fare molta più conversazione e sbloccarmi.

La risposta di Rossana, the teacher, e l’andamento della lezione fanno aumentare il mio mal di testa fino a diventare intollerabile. Capiamo immediatamente che chi è lì, si sottopone all’estenuante turno bisettimanale dalle 20 alle 22 per ottenere il certificato. Serve per il CV, per il lavoro. Not for myself or for travelling. E tutto è basato sulla preparazione dell’esame e non su un’allegra conversazione tra pari livello su cosa hai fatto nel week-end. Oh oh. Ci guardiamo sconsolate. Abbiamo appena speso 396 euro. E non è da signore mollare alla prima difficoltà.

Vado a casa con un’emicrania feroce. Naturalmente ho tutti i rimedi a portata, il mio negozio preferito è la farmacia e ho una vera fissazione per i principi attivi dei medicinali per combattere il mal di testa. Paracetamolo, ibuprofene, nimesulide, sale di lisina, l'acido acetilsalicilico e, per i casi più gravi, paracetamolo più codeina e ibuprofene più codeina. Ho le mie scorte personali che mia sorella Sara mi porta da Boots, il tempio londinese della farmacia.

L’unico vero dramma è che l'assunzione frequente di analgesici o Fans può portare alla cronicizzazione del dolore. E che ormai ho provato qualsiasi tipo di principio attivo e ne sono assuefatta. Il mal di testa non migliora. Vorrei spaccarmela contro la parete. Vago, nella notte. Mio marito russa beatamente, il che, di certo, non aiuta. Provo i rimedi della nonna, ghiaccio, mollette sulle 10 dita, buttare indietro la testa senza il cuscino, sale grosso bollente. Poi mi ricordo che mia sorella, quando era incinta di Giudittona, impazziva di mal di testa e non potendo prendere farmaci riusciva a debellarlo con caffè nero e limone spremuto. Insieme. Contemporaneamente. Mi convinco che il peggio che può succedermi è vomitare. Preparo la miscela, con mani tremanti e mi accingo a ingurgitarla di fianco al cesso con la tavoletta alzata. Chiudo gli occhi e bevo. Fingendo che sia uno shottino di rum e pera.

E poi accade il miracolo. In una manciata di minuti il mal di testa passa, completamente. Non riesco a prendere sonno subito per la caffeina nelle vene alle 5 del mattino. Fuori albeggia e io vedo la luce dopo una notte insonne. Mia sorella e Giudittona mi hanno salvata dall’isteria. Il caffè con il limone funziona davvero. Garantito. Garantito al limone.

lunedì 30 settembre 2013

Cuore giallorosso


Ieri sera a cena, con il decoder sintonizzato su Roma-Bologna, ho avuto un’illuminazione. Florenzi, Gervinho, Benatia, Gervinho, Ljajic. Cinqueazero. La Roma mantiene la vetta e inizia a sognare. Ho una strana sensazione di benessere. Il Milan, il mio Milan, il giorno prima ha vinto di misura a San Siro con la Sampdoria. Nessuna emozione a parte il fatto di aver scongiurato gli sfottò di mio marito gobbo, tornato dal derby di Torino come se avesse vinto alla lotteria. Invece Gervinho che esulta con le treccine al vento mi ha scatenato un’emozione. Non ormonale. Quella me la provoca Balzaretti, oppure me la provocava Osvaldo, anche se ha lasciato la capitale. C’è qualcosa che non quadra.

Diciamo pure, non senza orrore, che sono nata juventina. Ma solo perché mio papà tifava la Vecchia Signora sebbene, dato il suo noto aplomb da vero gentleman, non sia mai stato volgarmente sfegatato. Le prime vere emozioni calcistiche, puramente dovute al gioco, s’intende, sono comparse a 7 anni, nel 1982, l’anno del Mondiale di Spagna. E’ stata anche l’occasione in cui ho urlato a gran voce la mia prima bestemmia, proprio davanti al gentleman con l’aplomb, per un gol mancato. Probabilmente l’avevo sentita in qualche piazza con i megaschermo e pensavo fosse una cosa fica.

Con gli anni sono diventata milanista. Il gentleman era sempre meno appassionato a calcio e Juventus e io non avevo più un mentore. I miei compagni delle elementari non si interessavano particolarmente al calcio, almeno, non come i marmocchi di oggi che addirittura giocano con gli amichetti al fantacalcio. Sono diventata milanista per amore.

Ho avuto 4 fidanzati. Andrea, Andrea, Michele e Michele. Tra i due Andrea nessun problema, così come tra i due Michele. Tra il secondo Andrea e il primo Michele invece, i miei sbagliavano costantemente nome. Porca paletta. Non è durata neppure un anno. I due Andrea erano milanisti, il primo Michele interista e l’altro Michele, come già detto, gobbo. Tra i 19 e i 23 anni quindi sono diventata rossonera da stadio. Pressappoco dal trio olandese delle meraviglie all’era di George Weah e Dejan Savicevic.

Andavo in curva e sapevo tutti i cori. La tamarraggine della ragazza di Rho esplodeva nella massima espressione. Ma dentro il mio cuore, come tutti i tamarri che si rispettino, avevo un amore segreto, così come dentro al mio portafoglio. Una figurina Panini. Di Gabriel Omar Batistuta, l’unico e il solo. Un amore viscerale che custodivo segretamente nel mio cuore. Non avevo la foto di Andrea&Andrea. Avevo la figurina di Gabriel, in maglia viola.

Quando il mio Gabriel è passato alla Roma e io ho subito il traumatico passaggio dal doppio Andrea al primo dei Michele, mi sono svelata. Forza Roma. Quando l’anno con il primo Michele è finito perché lo chiamavano Andrea, ho smesso di fare avanti e indietro tra Milano e Carrara e, negli unici due giorni liberi dagli allenamenti di pallavolo, ho iniziato a lavorare in un pub che aveva Telepiù. E la domenica trasmetteva le partite. Il mio capo mi ha regalato la maglia di Gabriel, che ho ancora naturalmente, e in quel periodo mi sono scoperta tifosa allo stato puro. Non di tamarraggine, di cuore. Anche se Gabriel quando segnava urlava alla telecamera Irinatiamo. Ma io fingevo e sognavo che il labiale mi ingannasse e che dicesse Aletiamo. Un po’ come un doppiaggio malriuscito.

Poi Gabriel è andato all’Inter. Una delusione infinita. E poi in Qatar. E io sono ritornata milanista ma simpatizzante per la Roma. Ma ieri mi sono resa conto (e giuro, non perché la Roma è prima in classifica e mi sto parando il culo perché probabilmente il Milan non andrà neppure in Champions)che il mio cuore è giallorosso. E che la Roma è stata la mia unica scelta, l’unica squadra che io abbia veramente tifato con cognizione. Anche se per colpa di Batistuta.

Ebbene. Ho fatto coming out. Da oggi consideratemi romanista. Non soffrirò più per le sconfitte del Milan. Non darò più peso agli sfottò di gobbi e di interisti. Esulterò se il Milan continuerà a vincere in coppa soprattutto contro Leo Messi e compagnia bella. Il Milan è la mia seconda squadra. Ma il mio cuore urla Forza Roma. E anche Batistuta ti amerò per sempre. Ovunque tu sia. Amen.

mercoledì 17 luglio 2013

Il Non Simpatico


Durante i miei sempre più approfonditi studi sul genere umano, ho appreso, con consapevole fastidio, che il senso dell’umorismo è una dote prettamente maschile. Mi spiego. Fateci caso, siete a una cena, o a una festa, con un gruppo di amici, maschi e femmine, diciamo in numero pari. I mattatori della serata, quelli più simpatici, più brillanti, con la battuta pronta, gli scippatori di risate argentine, sono quasi sempre uomini. Una donna che fa battute, anche un po’ sguaiate, risulta quasi sempre volgare. Al maschio invece è concesso. Poi, per carità, ci sono le donne argute, quelle che riescono a cogliere l’ilarità generale pur rimanendo bon ton. Ma sono eccezioni. Eccezionali.

Probabilmente nell’emisfero cerebrale che regola il senso dell’umorismo femminile c’è il vuoto. Un’eco assordante riempita dalla sensibilità, l’empatia, il senso materno, la propensione allo shopping, alle borse, alle scarpe, ai Lares Familiares. Ma il senso dell’umorismo proprio no. E’ rimasto nella culla accanto al fiocco rosa.

Quindi, a corollario di tutto ciò, si dovrebbe dedurre che tutti gli uomini siano dotati, in dose più o meno variabile, di senso dell’umorismo. Dote che, come detto, alle donne è per lo più preclusa. Certo, esistono anche uomini antipatici. Ma gli antipatici non mancano di senso dell’umorismo. Solo decidono di non servirsene per essere ancora più odiosi. Gli antipatici sono cognitivamente atteggiati verso una forma di avversione generalizzata nei confronti di qualcosa o di qualcuno. Gli antipatici sono personaggi schivi, hanno lo sguardo incazzato e sono sempre di cattivo umore. Oppure parlano troppo, sono invadenti, hanno un ego ingombrante e non hanno il senso della misura. Gli antipatici sono quelli che non sono assolutamente popolari. Ma il senso dell’umorismo c’è. Nascosto. Ma c’è.

Tra i simpatici e gli antipatici esiste un’altra categoria che non viene presa in considerazione e che non viene neppure definita. Il NON SIMPATICO. Che è totalmente diverso dall’antipatico. Il non simpatico si sforza di piacere alla gente, si sforza di fare battute per suscitare risate perché necessita di approvazione sociale. E’ affabile, ha buone maniere, spesso è di classe sociale elevata, ha un Q.I degno del M.E.N.S.A, buona cultura e una posizione professionale invidiabile. Ma non ha un briciolo di senso dell’umorismo. E’ rimasto nella culla di fianco al fiocco. Azzurro.

Secondo la basilare teoria matematica degli insiemi, imparata alle elementari, ogni insieme ha un suo sottoinsieme. E anche la categoria del Non Simpatico ha il suo bel sottoinsieme. Ci sono i non simpatici che, per loro sfortuna e non per loro colpa, provengono da retaggi regionali che per forza di cose non li rendono simpatici. Piemontesi e Trentini su tutti. Pur concedendo licenza a un marito trentino e a un caro amico piemontese. Ah, e anche a mio suocero, trentino puro, con senso dell’umorismo purissimo. Eccezionalmente eccezionale.

Poi ci sono quelli che vogliono fare a tutti i costi i brillantoni. Ma che cercano di farlo pescando nel loro repertorio di tormentoni rubati a Zelig, Colorado Cafè e similari, usando frasi tipo: “Sono talmente stanco che mi devi raccogliere con il cucchiaino”, e, per i più retrogadi, mimando il verso di fantozziana e fracchiana impronta tipo “Scusi lei, abbia pietà” o “mi si incrociano i diti” e roba del genere. Da rabbrividire.

Infine, ahimè, ci sono i maestrini. Che poverini cercano in tutti i modi di fare i socievoli, di ricordarsi come ti chiami e che lavoro fai, di raccontare aneddoti che, con il dovuto tono, potrebbero pure essere divertenti, ma che quando li contraddici o per sbaglio ti distrai cambiano la voce tipo gli adolescenti con il primo baffo, diventano striduli e isterici e si mettono in cattedra per essere ascoltati smascherando il loro essere Non Simpatico. Che forse poi sono anche i peggiori del sottoinsieme. Ma in fondo fanno tenerezza perché ci provano ma non ce la fanno. Non ce la fanno proprio. Evviva il Non Simpatico. EnneEsse. Per gli amici.

lunedì 1 luglio 2013

Fettine sarde


Nell’immaginazione collettiva, andare a cenare in un agriturismo della Sardegna, significa sfondarsi di cibo tipico, dagli antipasti a nastro alla seadas, il raviolo al formaggio condito con il miele, a fine pasto. Ecco, durante la mia mesata ad Alghero, dove, per inciso, ho raccolto informazioni, parlato con persone, osservato usi e costumi, annusato mirto e liquirizia, dicevo, durante la mia mesata sarda, una sera mi è girato di andare in agriturismo.

Il proprietario della casa che ho affittato, mi aveva caldamente sconsigliato, dopo aver messo piede da solo un’ora in terra sarda, di cenare in agriturismo. Da algherese Doc mi ha dato le dritte giuste per cenare divinamente nella splendida perla del nord ovest. E per evitare divinamente gli agriturismi.

Ma un giorno, con la mia amica Barbara Ceni che mi ha raggiunta per un week end lungo, ci siamo guardate negli occhi e, senza parlare, ci siamo capite. Agriturismo sia. A pranzo abbiamo digiunato. Per preparare lo stomaco all’evento. Al tramonto ci siamo contenute. La solita birrettina Ichnusa in spiaggia ma senza guttiau o pecorino. Abbiamo solo ceduto, più Barbara che io e più per complimento che per fame, alle profferte, mangerecce s’intende, delle terribili twins, ossia mia mamma e mia zia, su cui potrei riempire il blog fino all’esaurimento.

Dopo aver ingurgitato frettolosamente surimi spappolato condito da altra Ichnusa per mandarlo giù e dopo esserci fate una doccia rigenerante, Barbara Ceni e io abbiamo iniziato a smanettare su Trip Advisor, fedelissimo fino allo scivolone di Istanbul, in cerca dell’agriturismo perfetto: non troppo lontano, non troppo caro, non troppo abbondante, non troppo. Eccolo lì, ammiccante, Agriturismo Isidoro, cucina tipica Sarda. E’ lui.

Ci imbellettiamo, anche se abbiamo la cofana in testa per i capelli fonati in fretta e sciupati dalla salsedine, e usciamo piene di aspettativa alla volta di Isidoro. L’impatto non è male, vialetto di oleandri, un bel giardino tutt’intorno, poca gente. Troppo poca. Ma è fine giugno, ci sta. Varchiamo la soglia e ci accoglie un uomo, sulla sessantina, che ci fa accomodare. L’impressione è un po’ quella della mezza pensione all’alberghetto due stelle. Ma siamo ottimiste.

Sorridente, l’uomo sulla sessantina ci si avvicina e ci domanda che cosa vogliamo mangiare. Chiediamo lumi e ci illustra i due menù, uno completo comprensivo di maialetto, l’altro turistico con un po’ di roba che ci elenca ma a cui non facciamo caso concentrate solo sull’idea di non sfondarci troppo. Scegliamo il turistico che, secondo ciò che abbiamo udito, comprende un primo, una pasta fresca, una grigliata di carne, contorno e non so che altro. Forse anche gli antipasti. Ah si, anche una bottiglia di acqua e il vino rosso sfuso della casa.

Arrivano i gnocchetti sardi. Niente antipasti quindi. Un po’ deluse affondiamo la forchetta nel piatto tipico che ha un condimento a base di pomodoro fresco e basilico. Buono. Ma basico. Verifichiamo di aver capito bene, c’è un altro primo? La risposta ci zittisce. “Assolutamente no, sarei già fallito”. Oh. Mio. Dio. Adesso arriva la grigliata di carne, ci immaginiamo costine, salamelle, costate e filetto. E poi c’è il contorno. A chilometro zero. Chissà che prelibatezza. Arrivano tre fettine alla piastra con dei fagiolini. Lo giuro. Tre fettine di vitello marinate alla bell’ e meglio con un po’ d’aglio e appena grigliate. Però i fagiolini sono dell’orto, vuoi mettere? Consumiamo il nostro pasto da mezza pensione come due vecchiette silenziose con la cofana in testa.

Non arriva altro, è tutto. Chiediamo di poter avere un caffè e ci offre, di grazia, anche un po’ di mirto della casa. 20 euro a testa e via. Sorridente ci domanda se abbiamo gradito. Rispondiamo con lo stesso sorriso. In fondo il cibo era buono. Ma forse sarebbe stato meglio mangiare surimi spappolato e merluzzo alla cipolla con le terribili twins sul nostro bellissimo terrazzo. Ho preso il biglietto da visita di Isidoro. Lo faccio sempre. Eppoi qualche lato positivo c’è. L’olio fatto da loro era strepitoso. Ma, soprattutto, ho avuto materiale per le mie quattro affezionatissime lettrici. Vi amo.

lunedì 17 giugno 2013

Carla

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La mia amica B.F, che - sebbene mi abbia dato autorizzazione a pubblicare fatti che riguardano le sue marachelle - tenderò a proteggere con le sole iniziali, è una assoluta innovatrice in materia di “distrazioni dalla noia della vita”.

B.F è diventata mamma da poco e sta vivendo un momento di totale stato di grazia in cui sta imparando a conoscere la sua piccola amandola come solo una mamma sa amare la sua creatura. La sua creatività è, per il momento, solo in stand by ma una volta che avrà preso ritmo e misure tornerà a livelli elevatissimi di fantasia e genio puro.

Ci sono tante cose di B.F che vanno raccontate. Lei, va raccontata. L’ho conosciuta più o meno 5 anni fa, trapiantata a Milano dalla terronia con tutte le meraviglie che il profondo sud si porta al nord. Solare, accogliente, generosa e genuina, con quel bel viso mediterraneo, le tette grosse e il corpo pieno. Stupenda. Adesso poi, allattando, ha quelle tette ancora più grosse e quella faccia bella bella, da mamma felice.

Abbiamo litigato praticamente subito, eh come no. Una terrona verace che si difende contro l’indifferenza milanese versus una rhodense ostinata e un po’ tamarra. Puoi togliere la ragazza da Rho ma non Rho dalla ragazza. Ci siamo odiate e prese a parole. Più e più volte. Non ci siamo parlate per settimane, nessuna delle due mollava. Per poi tornare unite, capendo che il volersi bene prescinde dalle diversità. Di carattere e di regione. Che poi tutte le mie amiche terrone, che sono tra le più care che ho, mi dicono che sono una milanese anomala.

Tra le cose più geniali che la mente di B.F ha partorito, prima di partorire la sua meravigliosa bambina, c’è Carla. Carla è la sua amica immaginaria a cui confida segreti inconfessabili e verità scomode. Carla sa tutto dei suoi amori platonici, dei commessi dei negozi e degli avventori delle caffetterie che lei vorrebbe conquistare. Carla è un’amica fedele e silenziosa, ascolta attentamente elargendo consigli preziosi senza giudicare. E’ l’amica perfetta, l’incarnazione del diario segreto. L’unico, trascurabilissimo, problema, è che Carla è suo marito. Si, proprio lui.

A proposito del suo paziente marito, Carla, B.F mi ha raccontato che una volta ha cercato di tendergli una trappola per riuscire a coglierlo in flagrante. Ha creato su google un account finto con nome e cognome della ex fidanzata di lui. Quella storica. Quella che i tuoi suoceri, all’inizio della vostra storia, ti chiamano con il suo nome. Ebbene, crea questo account, si inventa di un trasloco al lavoro e scrive a lui, Carla, con tanto di numero di telefono dopo, ovviamente, aver comprato un sim card. Lui risponde evasivo all’e-mail. Lei inizia a martellarlo di sms. Un giorno sono in tram, B.F e Carla. Lei lo chiama con la sim card farlocca. Lui prende il telefono, la guarda, non risponde, scrive frettolosamente un messaggio: “Non posso”. Lei si svela, lui si infuria, B.F rischia di perdere l’amicizia incondizionata di Carla. Ma fanno pace e figliano. Happy end.

Se avessi anche solo pensato a una cosa del genere, mio marito mi avrebbe mandato i suoi amici avvocati sotto casa. Carla è diversa, è molto più tollerante. E B.F è il mio genio del male preferito. Speriamo inventi prestissimo qualcosa di nuovo.

sabato 13 aprile 2013

Buoni&Cattivi

Buoni e cattivi


Una volta, ai tempi delle elementari, funzionava che la maestra ci mandava a turno alla lavagna per farci segnare con il gessetto i buoni e i cattivi. C’erano due colonne. E c’era quell’odioso stridere del gesso sullo stato allotropico del carbonio. Grafite.

Non ho mai capito lo scopo pedagogico di dover dividere gli alunni in due categorie così ben definite. Se dovessi pensarci ora, a bocce ferme, attribuirei il fatto ad un escamotage della maestra per tenerci calmi in una pausa caffè. O in una pausa sigaretta. In caso la maestra fosse una fumatrice.

La categorica divisione tra buoni e cattivi è tornata prepotentemente in auge recentemente, durante un viaggio on the road a bordo di una berlina. Succede che ci si trova a chiacchierare con un amico, sui sedili anteriori. Anzi, da sedile anteriore - lato guidatore -  a sedile posteriore. Attraverso lo specchietto retrovisore. Dato l’inquinamento acustico crescente e il rischio “ciocco” per l’impercettibile voltarsi del conducente in order to listen better, l’occupante del sedile anteriore mi ha chiesto un cambio volante. “Così vi parlate tranquillamente e io posso dormire”. Detto fatto.

Il conducente sta passando un periodo di merda. Si può dire? Merda intendo. Io ho appena superato un periodo di merda. Di quella bella densa. Ora ho la testa fuori. Navigo a vista ma almeno respiro. Si sviscerano temi. Gli racconto le mie teorie sull’umanità, gli parlo di macchie di vita, di gabbiani che volano a mezz’aria, di amicizia, di intelligenza globale, di profezie autoavverantesi. Mi ascolta. Poi irrompe nelle mie sproloquianti elucubrazioni con la storia dei buoni e dei cattivi. Fa breccia. Questa mi manca.

Mi dice di aver realizzato, in questo momento doloroso della sua vita, di aver sempre basato e impostato tutto sulla divisione netta tra buoni e cattivi. Senza vie di mezzo. Stiamo parlando a cuore aperto, ormai. Non so bene come ci si è scivolati dentro. Probabilmente è un’empatia da navigazione nella merda densa. Lui è più sensibile, ci sta nuotando. Io sono un po’ più lucida, me la sono appena spazzolata via dalle vie respiratorie.

Esistono i buoni. Che non sono propriamente quelli che non dicono mai nulla, a cui va sempre bene tutto, non litigano mai, non cercano lo scontro, rispondono sempre si. Quelli non sono buoni. Che già il concetto di altruismo è complesso e colmo di sfaccettature. In un gesto altruistico, credo, c’è sempre un fondo di radicato egoismo. L’altruista palesato non fa qualcosa per gli altri. Lo fa per se stesso. Per un riconoscimento sociale. Per colmare un vuoto esistenziale. Per un senso di colpa. Per un senso e basta. Però i buoni, quelli veramente buoni, esistono. Ho visto il loro cuore. E’ pulito, nonostante la sozzura della vita, del mondo. Sono gli altruisti silenziosi. Quelli che fanno qualcosa per qualcun altro senza che quel qualcun altro se ne accorga. Quelli che desiderano il bene degli altri a prescindere dal proprio. Quelli che non sono invidiosi. Quelli che vedono il bicchiere mezzo pieno e che gioiscono delle cose semplici. Quelli che patiscono la fame e gli stenti ma dividono comunque a metà il loro tozzo di pane. Quelli che ascoltano il tuo grido soffocato. Quelli che, a loro volta, leggono il tuo cuore. In braille.

E poi, esistono i cattivi. Che non sono necessariamente gli stronzi, quelli che rispondono sgarbatamente, mettono il muso, ti rimproverano, cercano lo scontro a tutti i costi, rispondono sempre no. Quelli non sono cattivi. Che già il concetto di cattiveria è complesso e colmo di sfaccettature. Ah. I cattivi palesati indossano l’armatura medievale. C’è proprio tutto, elmo, gorgiera, corazza, spallaccio, rotella, manopola, fiancale, cosciale.  Si difendono dalla sozzura. Sono belligeranti per natura, non cattivi. Parano i colpi a suon di scudi. Però i cattivi, quelli veramente cattivi, esistono. E non sono neppure i Bassotti o Gambadilegno. E nemmeno Gargamella, Joker, Jack Torrance di Shining o Hannibal Lecter. Ecco sì, Hitler e Stalin si. Per esempio. Ma quelli più che cattivi erano completamente folli.
I cattivi veri sono i subdoli. I meschini. I malvagi. Gli invidiosi. Gli avidi. Gli oppositori degli eroi. La stessa derivazione etimologica definisce il cattivo.  Captivus diaboli. Prigioniero del diavolo. I cattivi sono quelli che vogliono il tuo male a prescindere dal proprio. Così, gratuitamente. Sono quelli che fanno leva sui tuoi nervi scoperti per annientarti. Quelli che usano le tue debolezze per deriderti. Quelli che approfittano del tuo cuore pulito. Quelli che si servono di te per il proprio interesse. Quelli che ti espongono a pubblico ludibrio per far ridere gli altri. Quelli che ti fanno sentire piccolo per non sentirsi piccoli. Quelli che tradiscono la tua fiducia. E sono puniti nel Cocito dantesco.

« Per ch'io mi volsi, e vidimi davante
e sotto i piedi un lago che per gelo
avea di vetro e non d'acqua sembiante »

Lo rassicuro. Lui per me è tra i buoni. E lo ringrazio. Per avermi permesso di leggere il suo cuore. In braille. Ma con un tum tum così potente da svegliare l’occupante del sedile posteriore.

venerdì 5 aprile 2013

Nostra “Signora” delle scoppole



Avere un marito gobbo bianconero, sei tu sei da sempre milanista rossonera da curva, non è proprio un bell’affare. Lo sfottò rubentino è fastidioso allo stato puro. L’interista è più tollerabile, dopo anni di frustrazione è arrivato il triplete di impronta mourinhana che ha salvato l’altra parte di San Siro dal giorno del giudizio. L’interista merita il purgatorio. Il gobbo rubentino la serie B.

Detto questo, il limite di tollerabilità è stato raggiunto dopo che un signorino che di nome fa Lionel Messi, ha dato il via alla remuntada nello stadio del Camp Nou. Quattro pappine e la Champions vola via. Adios. Con buona pace dei dietrologi che volevano il 2-0 di San Siro come una trovata Berlusconiana pre-elettorale ma che hanno visto le loro teorie infrangersi sul palo di Niang. Che dolore. Il fenomeno Barça passa il turno. Il Milan torna a casa. E i rubentini fanno partire i caroselli che neanche dopo il gol di Fabio Grosso ai mondiali del 2006. Disgusto vero.

Senza stare a disquisire di calcio non avendo una competenza più che appropriata, anche se, per essere una femmina, ne capisco alla grande, avere un marito gobbo bianconero ha anche dei vantaggi. Ti permette di girare il mondo e di gufare da vicino.

La Juve finisce al sorteggio con il Bayern. Si parte per Monaco. Di Baviera. Ollallà. Il giorno dopo Pasquetta con zero gradi e un consistente numero di gufi nel bagagliaio. Evviva. La città bavarese pare essere bellissima. Una piccola Berlino ma meno bombardata e senza muri. Ho già l’acquolina. Scelgo un bell’albergo in centro, bello davvero. Dopo l’esperienza turca non voglio dentiere attaccate all’orecchio e pentole di fagioli sul fornello. Il gruppo vacanze si avvia, siamo in 5, tre gobbi, una milanista e una tiepida interista.

I ragazzi sono tesi. Ci si affoga nella birra e ci si strafoga con il crauto bello aggressivo il wurstel ammiccante e lo stinco di maiale geneticamente modificato. Siamo finiti nel covo. E’ una sinfonia di cori, una lotta impari tra la moltitudine rubentina e i pochi crucchi pro Bayern. Per sedare gli animi arriva la cameriera, una cinquantenne magra e sciupata tutta grintosetta che nel suo abito tipico picchia il pugno su una tavolata urlando con voce gutturale e inquietante: “Bunga Bunga”! Scompaio sotto il tavolo.

La “Vecchia Signora” sta per scendere in campo. Ci siamo. Il trio rubentino parte alla volta dello stadio con tanto di pashmina bianconera – la sciarpa è troppo cheap – e cappellino. Hanno trovato i biglietti in piccionaia ma l’importante è esserci. La tiepida interista e io facciamo le turiste per la città. Zero gradi. Ma Marienplatz è bellissima. Vuoi mettere?

I gufi intorpiditi nel bagagliaio iniziano ad agitarsi. E’ ora di liberarli. Dopo neppure trenta secondi la “Signora” è sotto. Oh cacchio. Inizio a preoccuparmi per le conseguenze. Porco cane. Ma in fondo è giusto. Hanno sfottuto allo sfinimento quando Messi ha segnato il primo gol. E’ giusto. Il Bayern segna ancora. Oh Oh. Due a zero e triplo fischio. Si va a cena.

E’ proprio la cena il pezzo forte della trasferta. Scelgo con cura il ristorante, una taverna bavarese tipica con cucina locale. Le reviews di Trip Advisor sono ottime. Perfetto. Il menù è in inglese, no problem, it’s ok. Ci arrivano i piatti tipici, mappazzoni veri, come direbbe il buon Bruno Barbieri. Chef stellato, mica pizza e fichi. La zuppa di cipolle bavarese contiene un disgustoso canederlo di liver, fegato. La crema di patate è un miscuglio terrificante di wurstel rinsecchiti. Il bollito è uno stracotto freddo con un’improbabile vinaigrette al prezzemolo. Ma il piatto campione è quello che ordina la tiepida interista su suggerimento di noialtri commensali. “Home made pork with potatoes”. “Che vuoi che sia? Stinco, vai tranquilla.” Le arriva un aspic di maiale gelato. Lo guarda disperata. Rimane intatto. Si va a Bretzel e Kartoffeln. Danke. E’ la punizione per il triplete. E’ la punizione per essere rubentini. E’ la punizione per quel palo di Niang. Ma la “Signora” può ancora farcela. I gufi sono carichi.


mercoledì 13 marzo 2013

Dignitosamente terribile



Di solito sono la regina dell’organizzazione dei week-end nelle città europee. Sono impeccabile: guida, scelta dell’albergo perfetto dopo uno studio incrociato di recensioni, cernita dei ristoranti tipici dove cenare la sera, preparazione accurata sulla storia dei monumenti principali, stampa preliminare della mappa della città e mezzo di trasporto ottimale sia per andare dall’aeroporto all’albergo che per muoversi tra le varie attrazioni. Tutto il viaggio è curato nei minimi dettagli e ben poco è lasciato al caso. E’ quasi palloso andare in giro con me, mi manca solamente una pettorina fosforescente per farmi identificare come guida turistica.

Tutta questa promettente e ridondante autocelebrazione solo per tirarmi su il morale dopo aver toppato clamorosamente la scelta dell’albergo per il viaggio regalo del mio compleanno, destinazione Istanbul. A mia parziale discolpa sta il fatto di aver deciso solo 48 ore prima e di aver avuto veramente una manciata di ore per i preparativi. Ma l’esito non cambia e l’auto flagellazione da Opus Dei è ancora in corso.

Per la location scelgo, scientemente e certosinamente, la zona del Sultanahmet dove ci sono Moschea Blu, Hagia Sofia, Topkapi e il Suk. Così possiamo girare a piedi senza sbatterci con i mezzi. Inizio a valutare gli alberghi. In genere opto per un 4 stelle che non costi un botto, che sia costruito nello stile architettonico della città che voglio visitare, che sia strategico per la posizione e che abbia i principali servizi. Quando viaggio con le mie amiche non ci sono problemi. Ma quando viaggio con mio marito devo stare attenta per non rischiare di averlo sul gobbone per l’intero week-end. E’ uno esigente.

Non ho mai toppato, fino ad ora. Trip Advisor è un amico prezioso e le reviews sono sempre  aderenti al vero. Inizio a guardare i 4 stelle e uno attira la mia attenzione. Lo sottopongo al vaglio dell’uomo del monte che, storcendo un po’ il naso, dice si. Ho come al solito carta bianca. Procedo. Ma al momento del click finale cambio idea e opto per un tre stelle e mezzo, è recensito meglio e le camere sono più grandi. Non posso sbagliare. Fatto.

La sera, a cena, tra i denti confesso biascicando: “ho preso un tre stelle e mezzo”. Mi guarda malissimo e inizia a brontolare. Mi faccio vedere sicura della mia scelta giurandogli che non si pentirà e mi pregusto la scena in cui sarò io a guardarlo con espressione soddisfatta per essere riuscita a spendere poco in una location fantastica.

Arriviamo a Istanbul. Piove e c’è traffico e io mi incaponisco a voler prendere uno shuttle comune invece che un taxi. Vengo accusata di essere una studentessa universitaria in vacanza. Che è un modo carino per darmi della pezzente. Cede, aspettiamo tre quarti d’ora e partiamo alla volta del tre stelle e mezzo con lui che è tranquillo ma ha già messo a bollire la pentola di fagioli.

La reception dell’Hotel è già lo specchio di quello che sarà la stanza. Oh Oh. Inizio a sudare e a spegnere quel pregustato sorriso di soddisfazione che stavo preparando. Cacchio. Ma ho fatto l’upgrading con la superior room vista Bosforo. Non potrà essere proprio un disastro. Varchiamo la soglia. La stanza è piccolina ma ha una bella vista ed è super pulita. Fiuuuuu. Lui non dice nulla. Il letto è un po’ corto, è vero, però sembra comodo. Non c’è l’armadio, merda. Non c’è neanche il bidet e la luce in bagno va a intermittenza. Porco cane.

Invece che essere aggressiva e difendere la mia scelta abbasso gli occhi e inizio ad ammettere di aver sbagliato. E’ la mia fine. La pentola di fagioli ora bolle che è un piacere e ho costantemente la dentiera di mio marito attaccata all’orecchio. Iniziamo a valutare l’opportunità di cambiare albergo. Ma non mi dò per vinta. C’è ancora la notte. E la colazione. Se il succo d’arancia è una spremuta vera sono salva. Per lui è il segno di qualità più importante.

A darmi il colpo di grazia è il Muezzin alle 5 del mattino. E’ vero che ho scelto un Hotel proprio dietro la Moschea Blu ma speravo ci fossero le camere insonorizzate. E’ vero anche che il Muezzin è affascinante e che è un pezzo fondamentale di questo viaggio. Ma è davvero troppo. E poi il succo d’arancia. Altro che spremuta vera. L’uomo del monte appone il sigillo decretando: “Dignitosamente terribile”. Valigie nella hall, si cambia albergo e tutto va bene.

Stamattina mi arriva una mail. Non sono auguri di compleanno. E’ una captatio benevolentiae dell’albergo per farmi mettere 5 stelle e una recensione positiva su Trip Advisor. Ecco perché!!!

mercoledì 6 marzo 2013

La giovane gnocca



Oggi qualcuno, anonimamente, ha commentato il mio ultimo post sull’intelligenza globale con un link che rimanda al sito di Piero Scaruffi, uno scrittore/giornalista/matematico/informatico/critico musicale che ha scritto anche saggi divulgativi sulle scienze cognitive. Che poi magari ha beccato il mio blog mettendo qualche key words in Google ed è stato proprio lui l’anonimo che mi ha lasciato il messaggio. Crediamoci.

Anyway, in buona sostanza, il pezzo cui il link rimanda direttamente è in inglese e recita: “The Cognitive Development of Pretty Girls”. Potendo vantare una conoscenza dell’inglese da Trinity 8 - anche se quest’anno al corso del comune cazzeggio alla grande e faccio i compiti il mercoledì sera, qualche ora prima della lezione, scopiazzando le soluzioni – sono riuscita a capire il senso dell’ articolo che contiene una sorta di vademecum esplicativo di quanto lo sviluppo cognitivo di una giovane gnocca sia totalmente influenzato proprio dal fatto che sia gnocca.

L’autore esordisce sottolineando il fatto che la giovane gnocca, in età adolescenziale, ha più amici maschi che femmine per una ragione principale: entrambi trovano la gnocca poco interessante ma i maschi, rispetto alle femmine, sperano di trombarla.  Quest’attenzione fittizia provoca nella giovane gnocca una distorsione della percezione di sé. Crede di essere fica. E il credere di essere fica quando hai quindici anni e i maschi ti cacano solo perché vogliono trombarti ha un impatto devastante sullo sviluppo cognitivo della giovane gnocca in questione.

Il tutto non c’entra con il QI individuale che può anche essere altissimo e indipendente dal grado di gnocchitudine. Scaruffi spiega che una giovane gnocca viene giudicata dagli altri più per la sua avvenenza che per il suo QI e ciò crea effetti devastanti per il suo sviluppo cognitivo. Questo avviene perché la giovane gnocca non ha bisogno di sbattersi per ottenere qualcosa. Non deve leggere/andare a conferenze/vedere film intellettuali/fare la femminista impegnata/trovare argomenti di conversazione interessanti. L’essere gnocca è il suo biglietto da visita e non deve fare nulla per migliorare sé stessa. Perché per lei è tutto semplice.

In definitiva, la giovane gnocca cresce con un’illusoria e ingiustificata autostima e una fasulla sicurezza di sè che le deriva dalla considerazione che gli uomini hanno sempre avuto di lei. E magari tra i 30 e i 40 anni, quando una mandria di giovani gnocche l’hanno ormai oscurata, inizia a leggere/ andare a conferenze/vedere film intellettuali/fare la femminista impegnata/trovare argomenti di conversazione interessanti per poter dimostrare di essere intelligente.

Geniale. Molte signore gnocche però potrebbero ritenersi offese. Soprattutto quando viene affermato con certezza che lo sviluppo cognitivo di una giovane gnocca potrebbe essere fermo ai 16 anni.

Dopo aver  trovato divertente il tutto e dopo aver risposto al mio anonimo commentatore il sorriso mi si è per un attimo mozzato. Proprio ieri ho postato su Facebook alcune foto di quando avevo 19 anni in pose da super gnocca, con i capelli lunghi, le labbra tumide e anche un po’ di tette. Sono iscritta al social dal 2008 e non lo avevo mai fatto. Di solito posto foto con boccacce e pernacchie. Settimana prossima compio 38 anni. E l’altra sera sono andata a vedere Les Miserables invece che qualche cagata americana. E sul mio comodino c’è Anna Karenina invece che l’ultimo best seller di Sophie Kinsella.  Ommioddio. Oh. Mio. Dio. Che il mio sviluppo cognitivo si sia fermato ai 16 anni e che ora, tra i trenta e i quaranta ma più verso i quaranta io abbia bisogno di sentirmi intelligente?

Rido. Di gusto. Quel genio di Piero Scaruffi mi ha proprio sgamata. Anche se Anna Karenina in realtà l’ho già letto al liceo. Anche se non sono mai stata una giovane gnocca e quelle foto un po’ da vamp sono state fatte da un bravo fotografo. Anche se, per tutti, rimango e rimarrò sempre la Brooke Logan del rhodense

lunedì 4 marzo 2013

Intelligenza globale



Mi sono sempre interrogata - forse perché volevo allenarmi a essere intelligente - sul concetto di intelligenza globale. E’ vero è vero, esistono dei test specifici per misurare il quoziente intellettivo. Quelle robe lì di logica, i disegnini, i conticini, le parole mancanti eccetera eccetera che dimostrano quanto il sillogismo aristoteliano sia stato applicato. Però con intelligenza globale, nella mia personale concezione, non c’è alcun riferimento alla misurazione del Q.I. I miei studi sul tema, negli anni, mi hanno fatta arrivare a una conclusione ben diversa.

Che esistano diversi tipi di intelligenza è risaputo. Qualcuno, credo, ha addirittura catalogato le “intelligenze” numerandole fino a 7. La più nobile è proprio quella che si misura con i disegnini e i conticini, quella che delinea il pensiero deduttivo e la capacità di arrivare senza intoppi alla soluzione. Il problem solving. Ma a me questa spiegazione dei cognitivisti non basta affatto. Nelle mie continue osservazioni sulle persone e sulla natura umana ho capito cose ben diverse.

Si si, faccio outing una volta per tutte. Ogni volta che esco con qualcuno per un aperitivo, una pizza, una serata o un the pomeridiano, osservo, studio e prendo appunti. Da quando lavoro da freelance poi è ancora peggio. Poter gestire il mio tempo mi ha regalato l’opportunità non solo di dedicarmi a tutto ciò che, lavorando dieci ore in ufficio, non si può fare, ma, soprattutto, di poter mettere in pratica la mia mission di studio – freelance -  del genere umano.

Non stupitevi quindi se, dopo questo outing pubblico, vi sarete resi conto che nel corso di quelle ore d’aria parlo pochissimo, non parlo per nulla di me stessa, ascolto, e faccio mille domandine mirate, qua e là. Non c’è malafede, non c’è un vero e proprio disegno preordinato. La ricchezza dello scambio e dello stare insieme è la cosa più importante ed è la molla. E’ che non posso proprio farne a meno, sono nata così, devo, necessariamente, approfondire. E approfondire per me significa parlare poco e ascoltare con attenzione ciò che il mio interlocutore mi sta dicendo. Poi, di default, ho il mio identikit.

Le mie amiche, quelle che mi conoscono bene perché mi sono lasciata conoscere, dicono con sicurezza che ho una capacità innata di capire le persone. Di intuire al volo la personalità di ognuno e di essere in grado di dispormi nella giusta maniera a seconda della persona che ho davanti. Ettecredo. Anni e anni di esercizio. In realtà non è così. Non ho né la presunzione né l’intelligenza né gli strumenti necessari per poter psicanalizzare chi ho di fronte. Ho solamente una gran voglia di capire. Una gran voglia di finire il mio puzzle complicatissimo inserendo il tassello mancante per avere – finalmente - la mia idea di intelligenza globale.

Le conclusioni a cui sono arrivata - seppur modestissime se commisurate al mio modestissimo QI – sono realmente sconvolgenti. C’è sempre qualcosa che distrugge le mie farneticanti idealizzazioni. Qualcosa che smentisce un identikit che credevo archiviato. Qualcosa che smonta il mio percorso di certezze. Ho capito chiaramente che tutte le intelligenze, anche le più brillanti e le più ostentate, hanno un difetto. C’è chi ha una capacità di ragionamento deduttivo che neanche Einstein ma che poi cade nell’arrovellarsi in discorsi totalmente ottusi solo per presa di posizione. C’è chi dimostra di capire al volo i concetti ma subito dopo scivola su un’ istintività indomabile e altre pecche caratteriali che portano a guastare lo splendido risultato cui era giunto. C’è chi ha brillanti intuizioni ma non riesce a comunicarle per un difetto congenito di intelligenza interpersonale. E c’è chi sceglie il low profile celando la vera intelligenza per potersi mettere alla pari di chiunque senza trasudare superiorità ma che poi si smaschera banalmente e nel modo peggiore trattando  quel chiunque come fosse inferiore.

Difficilissimo trovare l’intelligenza globale perfetta. C’è sempre qualcosa che ne limita la portata. Ogni volta però rimango fortemente disillusa. Quando credo di aver finalmente trovato il mio prototipo ideale di intelligenza globale, un attimo dopo vengo smentita. E devo ricominciare la mia ricerca da capo. C’è qualcuno che si avvicina alla definizione del mio personale concetto. Ma sono solo sulle dita di una sola mano. E tutti, più o meno, imperfetti. 

martedì 19 febbraio 2013

L’età delle illusioni


La mia terza notte maldiviana è stata stomachevole. Ho vomitato 14 volte, le ho contate. Dopo due giorni di assestamento sull’isola da cartolina, il corpo unto dalla crema solare protezione 50, i banchetti dietetici conditi da pesce appena pescato e verdura, mi sono concessa una serata di eccessi. L’ultima volta che ho vomitato così a causa dell’alcol, e non del virus intestinale, avrò avuto si e no 15 anni. Un’indianata in spiaggia a Celle Ligure. Mi hanno dovuto portare a casa di peso, all’epoca ero un fuscellino, e la mattina dopo non ricordavo neppure il mio nome.

La mia terza notte maldiviana sull’isola di Maayafushi mi ha fatto dimenticare non solo il mio nome. Mi ha fatto capire quanto mi manchi la felice età delle illusioni. Si si, proprio quella leopardiana. Non l’ho fatto apposta a bere così tanto. Non me ne sono accorta. Quel giorno sono arrivati in nostri amici David e Angela e dopo cena e tre bicchieri di vino locale, o forse quattro o cinque, mi sono stampata con un cocktail di quelli che chissà che diavolo ci avevano messo dentro.

Da quando ho perso il controllo a quando ho avuto il primo appuntamento con la tazza del cesso credo di avere, in ordine sparso:

·         Vaneggiato alla grande
·         Barcollato
·         Ammiccato anche a donne, anziani e bambini
·         Fatto un inaspettato bagno serale
·         Fatto la pipì almeno 15 volte
·         Fatto un cambio d’abito e di mutande
·         Essermi passata il dito insalivato sugli occhi per rimediare al mascara colato
·         Essermi fatta compatire da mio marito e dai miei amici David e Angela
·         Aver bevuto ancora, non paga, una roba dolciastra tipo batida di cocco
·         Essermi fatta trascinare al bungalow da mio marito, sfinito dai miei vaneggiamenti e vagheggiamenti

La mattina dopo ero una larva. Mio marito è uscito a vedere l’alba, spossato per avermi tenuto  per tutta la notte la testa mentre il mio stomaco si ribellava. Poi, premuroso, è andato a prendermi del pane, mi ha imboccato, mi ha preparato un moment e un plasil. Un angelo.

Non è che io, 38 anni il 13 marzo, non sia felice. O meglio, dando per scontato che la felicità non esista, se non a picchi che durano poco più di un attimo, sto sommariamente bene. C’è solo una cosa che stona e che combatte con quello stato di serena inerzia, la presa di coscienza. La responsabilità. La maturità anagrafica. Il brusco dissiparsi dell’età dell’illusione.

Età dell’illusione. Quando fai le cose senza pensare ma va bene così. Quando tutto scorre senza scossoni. Quando l’unica preoccupazione è tornare a casa in tempo per il coprifuoco se no ti becchi un cazziatone. Quando sembra non esista la forza di gravità e il tuo corpo è leggero. Quando anche la testa è leggera. Quando non hai il senso della paura e affronti la vita impavida. Quando tutto va bene anche se non va bene. Quando sei la reginetta della scuola anche con le ballerine, il maglione sformato e i capelli sciolti al vento. Quando sotto l’anestesia del delirio di onnipotenza credi che il mondo giri intorno a te.

Ecco. A volte vorrei proprio quell’anestesia. Vorrei vivere anestetizzata per non pensare. Per rifugiarmi in un mondo parallelo e alterato dove la tua testa è ancora così leggera. Dove ogni scelta sembra semplice e non esiste il dolore. Non esiste il dolore. Si, se potessi chiedere un desiderio al mago della lampada gli chiederei quella sana anestesia. Una breve letargia per poter spegnere la coscienza per qualche attimo. Così poi sarei rifocillata e di nuovo pronta per gli scossoni. Ma Aladino non esiste. Così come non esiste la felicità.

L’effetto dell’anestetico è finito nelle fognature maldiviane. Ma io, in fondo, sono felice.

martedì 15 gennaio 2013

Oh, domani balzo ginna!



Mi rendo perfettamente conto di non essere la persona più adatta per commentare un tipo di linguaggio, visto che un linguaggio l’ho inventato, il maggionese. Mi rendo anche conto che, oltre a parlare correntemente il maggionese e aver cercato proselitismo nella sua diffusione, parlo anche, o meglio, capisco perfettamente, il linguaggio giovanile, non riuscendo proprio a staccarmi da quella fase adolescenziale che mi è tanto cara. Sono leopardianamente ancorata all’età dell' illusione. Non posso farne a meno.

Premesso ciò, in un piovoso pomeriggio milanese, dopo aver sfidato temerariamente le lacrime del cielo cavalcando la mia bici targata BikeMI - un genialissimo lascito dell’ormai sindaco uscito Letizia Moratti - mi sono dedicata, manco a dirlo, alla terapia dello shopping. Saldi. Dappertutto. Entro da Zara e agguanto, chissà come mai, un paio di ballerine rosse borchiate. Scarpa più borchia. Un matrimonio pericolosissimo per il mio stipendio da freelance. Prendo l’ascensore per recarmi al piano inferiore dove ci sono le casse, insieme a due ragazzine, liceali o giù di lì. Si guardano nello specchio e poi una dice all’altra: “oh zia, domani balzo ginna”! Il mio cervello, abituato al linguaggio “strano”, traduce simultaneamente: “amica mia, domani mi giustifico nell’ora di educazione fisica”. Esco dall’ascensore arricchita nell’anima, appena prima di essere meno ricca di 30 euro anzi, 29,90, per le ballerine rosse borchiate. Meraviglioso.

Ohdomanibalzoginna non l’avevo proprio mai sentita. Mi piace. Devo riuscire a traslarla nella mia realtà visto che non vado più a scuola, purtroppo. E devo aggiungerla al dizionario dello slang giovanile milanese, da mixare, all’occorrenza, al maggionese:

-          Bella raga devo andare a fare benza
-          Minchia me ne sto andando a male
-          Quella tipa mi ha asciugato per tutto il pome
-          Oh colliamo per fare il regalo al tipo?
-          Zero, stasera non ci sto dentro a uscire
-          Minchia se fai brutto
-          Oh zì, ci sei rimasta sotto
-          Mi presti un fazzollo?
-          Mi hanno fatto una perquisa paura!
-          Mi rimbalza quel robboso!
-          Che sbatta!
-          Ho scavallato un ombrello a un tipello
-          Che sclero, mi ha preso la scimmia!
-          Ti ho troppo sgamato
-          Mi sto sbafando noccioline a tuono!
-          Mi piace un botto, è strabello!
-          Vai tranzollo

      Uno spunto antropologico necessario e fondamentale per i miei studi sul genere umano. Assolutamente meraviglioso.