sabato 28 aprile 2012

Chi ha ucciso Vicky Rai?



Lo ammetto. La mia vera debolezza, oltre ai vestiti, le scarpe, la pizza, il Gewürztraminer e il caffè, sono i libri. Quando abbiamo arredato la casa, ho concesso pareti arancioni, tende etniche, un pianoforte a mezzacoda nel centro della sala e le sedie Kartell per cui nutro una profonda avversione dovuta all’assoluta scomodità. Ho preteso solo una cosa, una gigantesca libreria.

La mia tesi di laurea, manco a dirlo, aveva come argomento i libri. Bibliografia e biblioteconomia. Una tesi sperimentale sul Consorzio del Sistema Bibliotecario del Nord Ovest Milanese. Una cosa pallosissima ma, per me, sublime. Una ricerca sul campo, in un tempio archivistico. 

La mia attrazione per i libri è fortissima. Il profumo delle pagine è inebriante, la libreria, un paese dei balocchi. Quando lavoravo in RCS avevo il 50% di sconto su tutti i libri. E passavo ogni pausa pranzo a deliziarmi nella scelta dei tomi, pregustando il momento in cui li avrei letti. Che sia un romanzo, un saggio, un classico, un volume d’arte o un ricettario non c’è differenza. Ogni libro per me è come un paio di scarpe nuove.

Quando mi si regala un libro, si va sul sicuro. L’unico problema è il doppione perché, spesso, non ho saputo resistere e me lo sono già comprato. Quando scarto il pacchetto è come se mi trovassi in mano una reliquia sacra. Accarezzo dolcemente la copertina, lo giro, leggo il plot narrativo sulla quarta di copertina, cerco informazioni sul colophon, controllo il risguardo e la rilegatura. E poi lo annuso. Un feticcio.

Tutte le volte che arrivo alla fine di un libro ho le guance rosse e gli occhi iniettati di sangue. Mi tengo l’epilogo come dessert e lo leggo qualche ora dopo, lentamente, parola per parola. E poi sprofondo in un vuoto cosmico cercando febbrilmente e subito qualcos’altro da leggere. Un’ossessione.

Per il mio compleanno i miei nipoti Valentina e Gabriele mi hanno regalato un libro. L’anno scorso nel pacchetto c’erano le ciabatte del Milan. Quest’anno, se possibile, il dono, vista anche l'agonia scudetto e il triplete ampiamente fallito, è stato ancora più apprezzato.

La copertina è arancione. Una condanna. L’autore è indiano, Vikas Swarup, il nome mi dice qualcosa. Il titolo è “I sei sospetti”. Bene, un noir, tra i miei generi preferiti. Vado subito alla quarta di copertina per leggere la trama. E’ il secondo romanzo dell’autore, il primo, “Le dodici domande” è quello da cui è stato tratto il film pluripremiato “The Millionaire. Ecco perché il nome mi diceva qualcosa. Porca miseria. Sale l’adrenalina. Ha 533 pagine che leggo in due giorni portandomi il libro arancione anche al cesso. Ho il culo a forma di asse (del cesso) e la sciatalgia. Non svelo altro. Leggetelo.

venerdì 27 aprile 2012

Ode on a Grecian Urn



John Keats - 1819 -
I.
THOU still unravish’d bride of quietness,
Thou foster-child of silence and slow time,
Sylvan historian, who canst thus express
A flowery tale more sweetly than our rhyme:
What leaf-fring’d legend haunts about thy shape
Of deities or mortals, or of both,
In Tempe or the dales of Arcady?
What men or gods are these? What maidens loth?
What mad pursuit? What struggle to escape?
What pipes and timbrels? What wild ecstasy?

 II.
Heard melodies are sweet, but those unheard
Are sweeter; therefore, ye soft pipes, play on;
Not to the sensual ear, but, more endear’d,
Pipe to the spirit ditties of no tone:
Fair youth, beneath the trees, thou canst not leave
Thy song, nor ever can those trees be bare;
Bold Lover, never, never canst thou kiss,
Though winning near the goal - yet, do not grieve;
She cannot fade, though thou hast not thy bliss,
For ever wilt thou love, and she be fair!

 III.
Ah, happy, happy boughs! that cannot shed
Your leaves, nor ever bid the Spring adieu;
And, happy melodist, unwearied,
For ever piping songs for ever new;
More happy love! more happy, happy love!
For ever warm and still to be enjoy’d,
For ever panting, and for ever young;
All breathing human passion far above,
That leaves a heart high-sorrowful and cloy’d,
A burning forehead, and a parching tongue.

 IV.
Who are these coming to the sacrifice?
To what green altar, O mysterious priest,
Lead’st thou that heifer lowing at the skies,
And all her silken flanks with garlands drest?
What little town by river or sea shore,
Or mountain-built with peaceful citadel,
Is emptied of this folk, this pious morn?
And, little town, thy streets for evermore
Will silent be; and not a soul to tell
Why thou art desolate, can e’er return.

 V.
O Attic shape! Fair attitude! with brede
Of marble men and maidens overwrought,
With forest branches and the trodden weed;
Thou, silent form, dost tease us out of thought
As doth eternity: Cold Pastoral!
When old age shall this generation waste,
Thou shalt remain, in midst of other woe
Than ours, a friend to man, to whom thou say’st,
«Beauty is truth, truth beauty,»- that is all
Ye know on earth, and all ye need to know.



mercoledì 25 aprile 2012

Ultimo canto di Saffo


"Opera di 7 giorni. Maggio 1822"

Placida notte, e verecondo raggio
Della cadente luna; e tu che spunti
Fra la tacita selva in su la rupe,
Nunzio del giorno; oh dilettose e care
Mentre ignote mi fur l’erinni e il fato,
Sembianze agli occhi miei; già non arride
Spettacol molle ai disperati affetti.
Noi l’insueto allor gaudio ravviva
Quando per l’etra liquido si volve
E per li campi trepidanti il flutto
Polveroso de’ Noti, e quando il carro,
Grave carro di Giove a noi sul capo,
Tonando, il tenebroso aere divide.
Noi per le balze e le profonde valli
Natar giova tra’ nembi, e noi la vasta
Fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto
Fiume alla dubbia sponda
Il suono e la vittrice ira dell’onda.

Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
Infinita beltà parte nessuna
Alla misera Saffo i numi e l’empia
Sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni
Vile, o natura, e grave ospite addetta,
E dispregiata amante, alle vezzose
Tue forme il core e le pupille invano
Supplichevole intendo. A me non ride
L’aprico margo, e dall’eterea porta
Il mattutino albor; me non il canto
De’ colorati augelli, e non de’ faggi
Il murmure saluta: e dove all’ombra
Degl’inchinati salici dispiega
Candido rivo il puro seno, al mio
Lubrico piè le flessuose linfe
Disdegnando sottragge,
E preme in fuga l’odorate spiagge.

Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
In che peccai bambina, allor che ignara
Di misfatto è la vita, onde poi scemo
Di giovanezza, e disfiorato, al fuso
Dell’indomita Parca si volvesse
Il ferrigno mio stame? Incaute voci
Spande il tuo labbro: i destinati eventi
Move arcano consiglio. Arcano è tutto,
Fuor che il nostro dolor. Negletta prole
Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
De’ celesti si posa. Oh cure, oh speme
De’ più verd’anni! Alle sembianze il Padre,
Alle amene sembianze eterno regno
Diè nelle genti; e per virili imprese,
Per dotta lira o canto,
Virtù non luce in disadorno ammanto.

Morremo. Il velo indegno a terra sparto
Rifuggirà l’ignudo animo a Dite,
E il crudo fallo emenderà del cieco
Dispensator de’ casi. E tu cui lungo
Amore indarno, e lunga fede, e vano
D’implacato desio furor mi strinse,
Vivi felice, se felice in terra
Visse nato mortal. Me non asperse
Del soave licor del doglio avaro
Giove, poi che perir gl’inganni e il sogno
Della mia fanciullezza. Ogni più lieto
Giorno di nostra età primo s’invola.
Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra
Della gelida morte. Ecco di tante
Sperate palme e dilettosi errori,
Il Tartaro m’avanza; e il prode ingegno
Han la tenaria Diva,
E l’atra notte, e la silente riva.

martedì 24 aprile 2012

Romanticherie



Adoro ascoltare storie romantiche. Tutta colpa dello Sturm und Drang. E forse anche un po’ della mia professoressa di lettere del liceo. Quando in classe leggevamo “La morte di Ermengarda” dell’Adelchi manzoniano o “Ultimo canto di Saffo” di Leopardi il mio cuore scoppiava di infinita pietas per quelle letterarie eroine romantiche che morivano d’amore. Assoluto. Titanismo. Struggente tensione verso l’inafferrabile infinito. Mi sudano le dita sui tasti solo a pensarci. Per non parlare poi dei vari Wordsworth, Coleridge, Shelley e, soprattutto, John Keats, puro nostalgico della perfezione classica. La sua “Ode on a Grecian Urn” mi ha fatta piangere più dell’ultima puntata di Lady Oscar. E poi “la Zattera della Medusa” del pittore romantico francese Théodore Géricault. Quando l’ho rivista al Louvre in un recente viaggio parigino sono rimasta imbambolata per dieci minuti davanti al dipinto con la mia amica Barbara Ceni che mi guardava come fossi una pazza.

Adoro invitare a cena coppie di amici. Tutta colpa del romanticismo. E forse anche un po’ della mia passione per la cucina. Il punto è che quando le coppie di amici accettano l’invito sono ignari dei due tranelli di cui saranno vittime. Il primo è l’essere cavie dei miei esperimenti culinari che prevedono mix di sapori e di colori. Il secondo è l’essere interrogati sul primo incontro e sulla nascita della loro storia d’amore. Non si scappa.

Una domenica sera ho invitato una mia carissima amica con il marito. Era la prima volta che venivano a cena e si sono salvati da esperimenti estremi solo perché lei aspetta un bambino. Non me la sono sentita di esagerare. Dopo gli antipasti la trappola è scattata. Era arrivato il momento. “Come vi siete conosciuti? Quando avete deciso di sposarvi? Mi raccontate la vostra storia?” Mio marito li ha ammoniti. “Parlate il meno possibile se non volete essere pubblicati sul blog”. Hanno parlato.

Ha iniziato lei a immergersi nel ricordo. Aveva 13 anni quando lui, di un anno più grande, l’ha vista per la prima volta. Erano in un grande parcheggio e stavano partendo per un torneo di pallavolo. C’erano diverse squadre, maschili e femminili e lui, tra tutte le ragazze, aveva notato quel faccino furbo e bellissimo. Ha continuato lui, confessando, confessandomi che in quel momento il suo unico pensiero è stato “io la sposerò”. Si sono incontrati altre volte, hanno avuto altre storie. Ma lui è rimasto sempre segretamente innamorato di lei.

Anni dopo, lei ha iniziato a vederlo in una maniera diversa. Sono usciti, hanno guardato un film e bevuto una coca cola. Poi si sono dati il primo bacio. Anzi, lui le ha rubato il primo bacio. Il rapporto è cresciuto, lui le ha svelato di amarla da sempre, dal momento in cui, una quindicina di anni prima, l’aveva vista con una tuta di lana blu e bianca in quel parcheggio. Lei lo ha abbracciato, lo ha guardato in quei suoi occhi intensi e sinceri e ha capito che sarebbe stato l’uomo della sua vita.

Una sera, lei torna da un viaggio di lavoro in Polonia. Che non è la Polacchia, intendiamoci. Scende dall’aereo e chiama lui che le dice di raggiungerlo in un posto. Lei è stanchissima, si è alzata presto, è demoralizzata perché il lavoro è faticoso e poco appagante e ha solo voglia di andare a dormire. Ma lui insiste e lei lo asseconda. Segue le indicazioni e si trova in un grande spiazzo. Parcheggia e scende dall’auto. Lui la vede da lontano e, lentamente, le va incontro. Sono uno davanti all’altra. Poi lui si inginocchia e le porge una scatolina. Quella scatolina. Contiene un anello. E con la voce rotta dall’emozione le chiede di sposarlo. Sono in quel parcheggio. Nel loro parcheggio. Dove lui l’ha vista per la prima volta e si è innamorato di lei.

Lei ha pianto, in quel momento. Io avevo la candela al naso e gli occhi umidi, dopo aver esaudito la mia curiosità sul loro amore. Ora aspettano un bambino ma non vogliono sapere il sesso. Si chiama fagiolo. E sarà un bambino fortunato. Io invece, da oggi in poi, temo che non avrò mai più ospiti a cena.


venerdì 20 aprile 2012

SignorNinoTiamo!



Qualche anno fa, andando in ufficio con la mia piccola Smart, mi sono resa conto con orrore di avere bucato. All’inizio non ci avevo proprio fatto caso, musica a palla per riprendermi dopo il suono della sveglia, pensieri che vagano nell’abitacolo, fogli sparsi e pacchetti di caramelle vuoti che ballonzolano sul cruscotto. Poi, all’improvviso, qualcuno, dietro di me, lampeggia insistentemente. Prima di insultarlo controllo che tutta sia a posto. Sta bruciando qualcosa? Ho la portiera aperta? Perdo olio? Lo sfanalatore folle si affianca, mi fa segno di tirare giù il finestrino e mi dice che ho bucato. Ma come diavolo ho potuto non accorgermene?

Ora che so la verità mi sembra proprio che la mia Smart sia strisciando sull’asfalto, anzi, mi sembra anche di sentire puzza di gomma bruciata. Inizio ad agitarmi. Non ci sono gommisti nella mia area visiva. Devo fermarmi. E, porca miseria, sono pure in ritardo. Parcheggio appena posso, scendo, chiudo e saluto con sguardo carezzevole e contrito la mia piccolina. “Verrò presto a prenderti, stai qui tranquilla, non ti preoccupare”. Corro a grandi falcate verso la metropolitana. Andrò in ufficio con i mezzi ma devo pensare ad un piano d’attacco per il recupero del povero relitto.

La prima cosa che faccio appena varcato l’ingresso di RCS è lavarmi le mani. Ho una specie di fobia -  che è ben più grave di una normale idiosincrasia - per la metropolitana e tutto il suo contesto: gente schiacciata, odori vari, inquinamento acustico di qualsiasi genere e, soprattutto, i germi che si depositano dappertutto. Cerco di non toccare mai nulla con le mani nude ma a volte rischio di ribaltarmi dopo fulminee partenze del mezzo e, mio malgrado, mi devo per forza appoggiare. La seconda cosa che faccio, dopo aver salutato i colleghi e acceso il computer, è chiamare mio marito per avvisarlo che la piccola ha avuto un fastidioso incidente e che è sola in una via milanese nei pressi di Lambrate.

Nessun problema. La piccola è al sicuro e avrà il migliore dei trattamenti. Mi dice di segnarmi un numero di telefono che corrisponde a un nome, Signor Nino. E’ il meccanico di fiducia che aveva l’officina sotto casa nostra che ora fa il freelance e si occupa un po’ di tutto. Titubante, compongo quel numero. Il Signor Nino mi risponde con voce squillante e, quando gli spiego il problema, il mio cuore ha un sussulto d’amore per quest’uomo che non ho mai visto e che diventerà il mio eroe: “Signora mi dia le coordinate esatte di dove ha parcheggiato la macchina che così io posso andare a cambiarle la gomma e lei quando esce dall’ufficio la troverà pronta e guarita”.

E quella sera, riemersa dalla metropolitana munita di fazzolettini umidificati per sopperire alla mancanza di acqua corrente, ho ritrovato la mia piccola perfettamente sistemata e in forma più che mai. E la consapevolezza di amare profondamente il Signor Nino mi ha investita con inusitata virulenza. Non vedevo l’ora di avere qualche altro problema meccanico per poterlo incontrare. Poi è successo. La spia dell’olio ha iniziato a lampeggiare a intermittenza. Avevo il pretesto per chiamare lui, il mio Signor Nino.

E’ arrivato un pomeriggio a bordo di uno scooter. Ha tolto il casco e rivelato la chioma sgarrupata. E il suo volto. Emozionatissima ho iniziato a parlargli, a fargli domande personali e sul suo lavoro procrastinando il più possibile il momento “cambio olio”. Mi ha detto di essere un “frilenders”, che tenerezza, e non mi è neanche venuto in mente di correggerlo, proprio io, maestrina nata. Poi mi ha confidato di essere in grado di fare tutto e di avere buona volontà nel cercare di risolvere qualsiasi problema. E io, da quel momento, non ho avuto più schermi di protezione. Il Signor Nino mi aveva completamente conquistata.

Ora ci diamo del tu. L’ultima volta che l’ho chiamato si è addirittura offerto di andare in motorizzazione con una delega firmata da me e una fotocopia del mio documento per cambiarmi la targa del motorino. Il Signor Nino è efficiente e super operativo. E’ rapido, preciso, puntiglioso. Il Signor Nino è onesto e risolve problemi di ogni tipo. E’ magnifico. Una manciata di giorni fa mi ha citofonato per consegnarmi la carta di circolazione della moto di mio marito. E io gli ho chiesto il permesso di dedicargli un post sul mio blog. Ha accettato, sorridendo. Non so se sappia precisamente che cosa sia un blog. Ma lui non sa che io lo amo.


lunedì 16 aprile 2012

Shopping. I love shopping!



Lo so lo so. Il fattore identificativo nel titolo di questo post sarà altissimo. Il dolce e melodioso suono della esse e della acca pronunciate insieme è da brivido. La soddisfazione immediatamente successiva ad una seduta di shopping è sempre, straordinariamente, infinita. Inutile negarlo, tutte amano lo shopping. E’ qualcosa di estremamente vitale per l’individuo, un po’ come bere o mangiare. E’ un istinto naturale che non si può reprimere. E’ salute e benessere. E’ svago, ricreazione, divertimento. E’ primaria necessità.

Lo shopping è elettrizzante. Giuro, sono riuscita a emettere isterici gridolini di gioia anche quando, per la prima volta, l’esselunga on-line mi ha recapitato la spesa direttamente al piano. Ero agitata quel giorno. La consegna era prevista tra le 10 e le 12 del mattino. Ho dormito male, mi sono alzata presto, ho fatto colazione, la rassegna stampa, la spunta delle e-mail e poi mi sono messa in attesa, alla finestra, per scrutare il traffico milanese in cerca di quel furgone giallo con il pomodoro
E poi è comparso. E il mio cuore ha iniziato a martellare. La mia spesa era arrivata.

Ma per far martellare il mio cuore ci vuole poco. Ormai, una volta scoperto lo shopping on-line, il suono del citofono con la voce baritonale del custode che mi annuncia l’arrivo di un pacco, non mi fa quasi più effetto. Quasi. “Glielo mando su in ascensore signora”. E io, con malcelata noncuranza “ah, si, grazie”. Il pacco sta per entrare nella sua nuova casa. Lo prendo con mani tremanti. Lo guardo. E invece di aprirlo subito mi rimetto al computer finendo quello che stavo facendo e mi gusto l’attesa ancora per un attimo. Sono maturata. Le prime volte il pacco non riusciva a varcare la soglia di casa integro.

Esistono diversi tipi di shopping. C’è quello ragionato, quando si acquistano solo oggetti utili, tubini neri evergreen o un cappotto firmato e monocromatico. Così non ci si stanca.
C’è quello compulsivo, quando si esce di casa senza un intento preciso di acquisto e si rientra in casa con deliziose shopper bag che strabordano.
C’è quello low cost che ti dà la sensazione di “sentirti figa” con poco e di avere fatto “l’affare”.
C’è il window shopping, quando si guarda una vetrina con il naso appiccicato e l’alone del respiro desiderando fortemente qualcosa che poi però non si compra.
C’è lo shopping on-line che si può fare direttamente da casa con un click o addirittura sul treno o in sala d’aspetto dal dottore con l’Ipad o l’iphone.
Ma soprattutto c’è lo shopping sano, un intenso momento di convivialità con le amiche, un reciproco scambio di opinioni, uno strepitoso esempio di “sorellanza” tra femmine. Perché lo shopping sano alleggerisce l’anima. Oltre che il portafoglio.

Lo so lo so. Ho finito. E’ ora di aprire il mio pacco.

giovedì 12 aprile 2012

Il gioco dei Tiamo


La mia amica Barbara Merlini e io, da giovincelle e sgarzoline, eravamo innamorate di un allenatore di pallavolo che, all’epoca, ci sembrava decisamente affascinante. Nonostante avesse meno di 40 anni, Lui era già completamente canuto, il che lo rendeva ai nostri occhi ancora più fascinoso. Una specie di Ravanelli della pallavolo, ecco. Era brillante e inarrivabile, aveva quel savoir faire che noi ragazzine neppure ventenni ci sognavamo, aveva lo sguardo accattivante e faceva il malizioso. Bazzicava nell’ambiente da anni, aveva avuto qualche flirt con alcune giocatrici più o meno della nostra età, vestiva alla moda e ci faceva subire il suo indiscutibile charme.

Quando Alberto Moscato ci veniva a trovare in palestra, essendo molto amico del nostro allenatore, ci paralizzavamo per l’imbarazzo, ci schermivamo e facevamo fatica a guardarlo. Poi abbiamo capito che la sua frequenza ai nostri allenamenti aveva una cadenza settimanale in un giorno ben preciso. E allora, il martedì, portavamo nel borsone un “pantaloncino Moscato” che era il più “evidenzia culo” che avevamo nel guardaroba. Ma lui più di tanto non ci cagava e questo accresceva a dismisura il suo ascendente.
Dopo la doccia, sensibilmente fredda, la mia amica Barbara Merlini e io ce ne tornavamo in macchina nel natio borgo selvaggio e prima di casa ci fermavamo con le quattro frecce, aprivamo la portiera e urlavamo all’unisono al mondo “Albertomoscatotiamooooooooooo!!!”.

Ha quindi avuto origine il gioco dei Tiamo. Quando qualcuno ti piaceva di brutto, lo amavi senza confessare. Lo tenevi stretto nel cuore e poi trovavi un momento opportuno per liberare l’eccesso d’amore e dichiararlo al vento. Naturalmente non valevano i vari “Bradpitttiamo”, “Davidbeckhamtiamo” o “Richardgeretiamo”. Loro vivevano sui poster in cameretta. Erano finti e irraggiungibili. Il Tiamo valeva solo per persone reali che, in qualche modo, avresti potuto conquistare.

Anni dopo, quando Alberto Moscato aveva perso tutto il suo fascino agli occhi di due giovincelle e sgarzoline diventate adulte e consapevoli, il gioco dei Tiamo, rimasto sempre di fortissima attualità nonostante l’adulta consapevolezza, è tornato prepotentemente in auge quando, in ufficio, ho incontrato Brigida. Lei ha capito al volo, senza che le spiegassi le regole. E ora è di diritto la regina dei Tiamo. La mia amica Barbara Merlini e io siamo state retrocesse al ruolo di gregarie pur amando ancora, saltuariamente, il barista carino, il meccanico di fiducia, gli amici fighi dei mariti.

I Tiamo non hanno perso la loro vocazione originaria
. Sono amori immaginari e impossibili permeati di una goccia di realtà. Esistono, ma non si possono amare veramente. E, come dice sempre la nuova regina dei Tiamo, è sempre un'emozione quando trovi qualcuno nuovo da amare. E, anche se non vale, Pepguardiolatiamo!






mercoledì 11 aprile 2012

martedì 10 aprile 2012

La fiera del porco


Per finire il pane. La mia povera nonna, pace all’anima sua, quando a fine pasto le si offriva ancora qualcosa da mangiare, non rifiutava mai e rispondeva così: “ma si grazie, giusto per finire il pane”. Poteva essere qualsiasi cosa, un mestolo di minestrone, una manciata di cavolini di Bruxelles, una fetta di arrosto o una cucchiaiata di crema al mascarpone. E lei, finiva il pane. La mia nonna non c’è più ma noi, in famiglia, abbiamo mantenuto la tradizione, finire il pane alla fiera del porco.

La fiera del porco non è una sagra di paese in cui si serve maiale in tutte le salse. E non è neppure una rievocazione dei mercati medievali che raccoglievano contadini e allevatori da tutti i borghi circostanti e carovane di mercanti che provenivano da paesi lontani per vendere le loro merci. La fiera del porco è un normalissimo convito maggioniano.

Le feste comandate, in casa Maggioni, sono sempre state affollate. Di cibo e di congiunti che non mangiavano per settimane in vista dell’evento. A Natale e a Pasqua, per esempio, ci si svegliava all’alba per spalmare tartine, sfogliare verdure, impastare ravioli e allestire un sontuoso banchetto. Quando tutto era pronto, ospiti compresi, la fiera del porco aveva inizio. Un trionfo di leccornie servite in tavola. Ghiottonerie per tutti i gusti. Invitanti vettovaglie. Decine e decine di portate.

Le feste comandate, in casa Maggioni, sono sempre più affollate. Di cibo e di congiunti. Di sangue e acquisiti. Per matrimonio, la mia già grande famiglia si è allargata a dismisura. Noi siamo quattro sorelle, più mamma e papà, più nipote, più un cognato. Mio marito ha tre sorelle e un fratello. E tra cognati, cognate, nipoti, genitori e nonno, la tavola imbandita conta una trentina di coperti. C’è una regola che mi salva da un polacchiamento epocale: ognuno prepara qualcosa. Ma quel qualcosa, aggiunto agli altri qualcosa, eleva la fiera del porco ad un evento a rischio indigestione.

Bene. Reduce dalla recentissima fiera del porco pasquale, sono tornata a Milano con un cadeau. Mangereccio, ovviamente. Mia suocera, che la sa lunga in fatto di pantagruelici banchetti, mi ha messo in borsa un tupperware. Non contiene avanzi, quelli ce li siamo finiti a Pasquetta. C’è del tarassaco bollito. Quella pianta, dal fiore giallo e dal sapore amarognolo che ha proprietà terapeutiche e depurative. Soprattutto depurative. Per preparare il fegato alla prossima fiera del porco. E per finire il pane.


venerdì 6 aprile 2012

Superstizione


Lo ammetto. Quando un gatto nero attraversa la strada prima che io passi, faccio inversione. A piedi, in bici, in motorino e in macchina. Ma ho solo questa piccola superstizione. Anzi no. Anche quando rompo uno specchio raccolgo i vetri e vado a buttarli nel fiume. E poi quando passa un gruppo di suore tocco impercettibilmente qualcuno che mi passa di fianco e recito mentalmente “tua suora non ricevo”.  E incrocio anche le dita o cerco di toccare ferro quando passa un’ ambulanza. Ah si, non passo sotto una scala o un ponteggio, mi prende come un prurito strano, una specie di orticaria che, nonostante il cartello “pedoni a sinistra”, mi fa andare a destra. E poi, ma giuro che è l’ultima cosa, non prendo mai il sale a tavola se me lo porgono direttamente. Si, forse sono un pochettino superstiziosa. Ma chi non lo è? Ecco il florilegio delle mie superstizioni e tutti i trucchetti per aggirare l’ostacolo.

Il gatto nero

Sei in macchina e stai guidando assorta nei tuoi pensieri. Stai andando in ufficio, in palestra, dal dentista, a un colloquio di lavoro o a una cena tra amici. Ed eccolo lì. Un gatto nero, con passi felpati, attraversa la strada, esattamente davanti a te. Ti desti immediatamente, lo scorgi come un’immagine rapida e improvvisa. Oh porca miseria. E ora? Accosti e pensi alle possibili soluzioni. Primo: fare inversione e cambiare strada. Secondo: aspettare con le quattro frecce in doppia fila che qualcuno passi prima di te. Terzo: passare comunque e fare gli scongiuri che si traducono in un’azione che prevede di fare le corna, fingere di sputarsi sulle dita, e gettare le suddette corna dietro di te, in direzione del percorso del gatto, per sette volte.

Le suore

Stai camminando per andare verso quel negozio super cool in fondo alla strada. Non vedi l’ora di comprarti quel sandalo che hai visto in vetrina. Un gruppo di suore ti passa accanto sorridendoti. Ricambi il sorriso a denti stretti e cerchi di individuare qualcuno a cui “passare la suora”. Ecco, c’è un ragazzo con l’aria da Nerd che sta venendo verso di te. Bisogna agire. Lo urti, in modo apparentemente casuale e gli chiedi scusa. E poi, come in un fumetto, compare la nuvoletta del pensiero “tua suora non ricevo”.

Scale e ponteggi

Hai finalmente comprato il sandalo e passato la suora. La tua giornata sarà bellissima. E invece no, tornando sulla strada di casa c’è un ponteggio che ostacola il passaggio. C’è un cartello, “pedoni a sinistra”. No no no. Assolutamente no. La via è trafficata, passano continuamente macchine e scooter. Ma tu non puoi andare a sinistra e passare sotto il ponteggio. Sfidi la sorte e vai a destra. Sei salva.

“Cinquecentogiallanonricevo”

E’ una vecchia superstizione degli anni ’80 quando ancora circolava la vecchia Cinquecento che ora è un gioiellino da collezionisti. Ma se il colore era giallo allora erano guai. Portava sfiga. E quindi si passava, recitando la formula, e incrociando le dita
Lo specchio rotto

Sette anni di disgrazie. Questa l’infausta predizione per chi, inavvertitamente, rompe uno specchio. La soluzione è solo una. Gettare i vetri rotti nell’acqua corrente. Non vale l’acqua del cesso quando si tira lo sciacquone, è solo un comodo escamotage. L’ideale è avere un fiume o un torrente vicino a casa.

Il sale in tavola

Mai passarselo di mano in mano. Il sale deve essere posato sul tavolo e, in un secondo tempo, preso. Non so quale sia la sfiga correlata ma meglio non saperlo.

In tredici a tavola

Che il 13 sia un numero sfortunato è una leggenda. Sono nata proprio il 13, sotto una buona stella. E poi il tredici è proprio un bel numero. Ha un bel suono. Ma mai sedersi a tavola in tredici. Piuttosto uno sta in piedi. O si invita qualcuno, a caso, per fare il quattordicesimo.

Regalare scarpe

Care ragazze, qualcuna di voi ci resterà male e farà di tutto per non crederci. Ma pare che regalare scarpe al partner o farsele regalare sia di malaugurio. Avete presente a quante meraviglie ho dovuto rinunciare per questa odiosa superstizione?

Il viola a teatro

E’ una tradizione prettamente teatrale che, per estensione, ha additato il colore viola sugli abiti come mena rogna. Anche ai matrimoni si tende ad evitarlo. Però, ci piace.

Lo spazzolino giallo

E’ una superstizione che ho appreso recentemente al gate d’imbarco per Parigi. La mia compagna di viaggio ha acquistato da un distributore automatico uno spazzolino. Il caso ha voluto fosse giallo. Mi ha chiesto un parere e abbiamo fatto una seconda prova. Ancora giallo. Lo abbiamo lasciato lì. Volevamo arrivare sane e salve. Non si sa mai.
Aprire l’ombrello in casa

Credo che il funesto presagio, aprendo un ombrello in casa, sia solamente legato al meteo. Quindi se avete un matrimonio o un altro evento simile in vista non fatelo!!!

E a proposito di matrimoni, esiste tutta una serie di superstizioni, scongiuri e auspici per il giorno più bello. E visto che ho due matrimoni importanti nei prossimi due mesi, ne parleremo!



mercoledì 4 aprile 2012

Arcaismi

Papà Enore e Ale

Siamo nell’era web 2.0. Lo Zingarelli non esiste più, soppiantato da Google e da Wikipedia. Abbiamo tutti, o quasi, lo smartphone, l’Ipad e il navigatore. E ho recentemente scoperto che anche mia madre fa acquisti su E-bay con la sua Postepay. E’ vero che mia madre è un genio però ormai anche il linguaggio è diventato multimediale e la terminologia usata dai nostri nonni, dai nostri genitori e anche da noi over 30 è caduta in disuso. Il bombardamento tecnologico e l’evoluzione dell’idioma hanno però risparmiato qualche inossidabile, tipo mio padre.

Classe 1942, capello brizzolo, una vaga somiglianza con Mario Monti e un nome veramente curioso. Enore. Enore Maggioni. Non ne conosco esattamente l’origine ma credo che abbia ben poco di mitologico. Non era un dio greco o romano. Non era Agenore, figlio di Poseidone. E non era neanche Antenore, il saggio che voleva scongiurare il pericolo della guerra di Troia cercando di convincere la bella Elena a rinunciare a Paride e tornare da Menelao. Negli anni quaranta usava dare ai nascituri i nomi dei bambini morti. E nei mesi precedenti all’ottobre 1942, nella fumosa cittadina di Rho, era morto un bambino che si chiamava Enore. Così mio papà si è beccato quel nome. Ma con un secondo nome a battesimo. Giovanni Battista.

Enore Giovanni Battista Maggioni, in procinto di festeggiare il settantesimo compleanno, oggi è un nonno felice. Nonno Enole. E’ un signore distinto che veste elegante, con il Loden d’inverno e l’impermeabile di Burberry’s comprato con un super sample sale londinese, nella stagione di mezzo. Ha sempre i mocassini di pelle e un maglioncino girocollo rigorosamente di cashmere, di lana vergine, o al massimo di cotone. Guai a regalargli qualcosa che abbia una minima percentuale di acrilico. Insomma, ha una classe innata. E un linguaggio che ha ben poco di multimediale o di web 2.0. Lui parla all’antica. E quando incontra una bella signora le fa pure il baciamano. Un meraviglioso Don Giovanni. Battista.

Intendiamoci, capisce il maggionese ma non lo parla. Perché il suo vocabolario, dal sapore un po’ retrò, è da vero signore. Ecco un breve compendio che tutti dovremmo memorizzare o riesumare per affrancarci dallo slang dei vari “Bella Zio” “Non ci sto dentro” e ricominciare a parlare come si deve.

Pertanto: quindi
Refettorio: mensa aziendale
Lettiga: ambulanza
Vieppiù: e inoltre
Pudenda: parti intime
I miei ossequi: mi saluti sua moglie
Ostrega: Caspita, Porca miseria
Discolo: ribelle, indisciplinato
Pittima: lamentosa, pentola di fagioli
Posapiano: sfaticata, annoiata
Corriera: autobus, pullman
Dottrina: catechismo
Filarino: avere un flirt
Lenta di comprendonio: poco sveglia
Tarlucca: lenta di comprendonio
Putacaso: metti che
Trabiccolo: oggetto instabile
Schettini: pattini a rotelle (non il plurale del comandante Schettino!!!)
Passeggiatrice: donna di facili costumi
Marinare: bigiare la scuola
Moroso: fidanzatino
Polacchine: scarpe da montagna (non ragazze che polacchiano)
Masserizie: utensili da cucina
All’uopo: all’occorrenza
Prestinaio: panettiere

Nonno Enore e Carolina