lunedì 7 marzo 2016

La ceretta all’inguine



Ecco. Mi rendo conto che il titolo del post non sia proprio accattivante. Almeno non per una parte di lettori. Ma mi sono occupata per tutto il giorno, insieme alla mia vecchia amica e compagna di squadra, ora fiscalista, di editare la Guida Fiscale del 730. Quindi i casi sono due: o accendo la tele e guardo l’Isola dei famosi, che però inizia mercoledì, o parlo di ceretta all’inguine. Annullare il cervello, a fine giornata, è l’unica soluzione possibile.

La ceretta all’inguine è una delle cose più terribilmente dolorose in natura. Seconda solo al parto, anzi, rettifico, il parto, se fai l’epidurale, non è così agghiacciante. Seconda solo a quando spacchi il legamento crociato del ginocchio e sbricioli i due menischi. Il dolore è allucinante. Più del parto. Con epidurale naturalmente. E della ceretta all’inguine. Appena fuori dal podio, ma lì lì e a parimerito, ci sono il mal di denti, il mal di testa quando sei incinta e puoi prendere solo la tachipirina, le coliche addominali quando sei incinta e puoi prendere solo la tachipirina, il torcicollo. Sia quando sei incinta e puoi prendere solo la tachipirina sia quando ti viene e basta.
Dal quinto al decimo posto, in ordine sparso, ci sono il gomito sbattuto su uno spigolo o il mignolo del piede sulla gamba del tavolo, quel tipo di dolore che senti dai due ai tre secondi dopo. Tua figlia che ti dà inavvertitamente una testata. O che ti tira i capelli. Non troppo inavvertitamente. La lezione di pilates quando non hai più addominali. Il virus intestinale e le sue varianti stagionali. La pipì quando ti scappa fortissimo e non puoi farla. E il tunnel carpale quando per lavoro devi fare una cricetata assurda e non stacchi mai la mano dal mouse.

La ceretta all’inguine, però, merita uno spazio tutto suo. Talmente dolorosa che rimandi il più possibile l’odiato momento in cui devi sottoporti a tale tortura. Talmente disgustosa che a volte preferiresti andare dal dentista. O a fare il pap test. Anche perché, più o meno, la posizione sul lettino dell’estetista è tale e quale a quella di quando sei dal ginecologo a farti il pap test. Per non parlare di quando ti fanno mettere a quattro zampe – scusate l’immagine raccapricciante – per, così dire, le rifiniture. Ma chi diamine ha inventato la ceretta all’inguine? E dove è scritto che si debba per forza fare? Perché un conto è fare le mani, le sopracciglia, i baffetti, la pulizia del viso, la maschera al cetriolo. Quelli si vedono. E mettiamoci anche la pedicure, le ascelle e le gambe. Ma perché l’inguine? Perché se non strettamente necessario tipo che vai in piscina, in SPA, in vacanza o hai amanti vari e occasionali?

La ceretta all’inguine, pur dolorosa che sia, è un fatto concettuale. Anche se sei sposata da dieci anni, hai dei figli, non vai mai in vacanzapiscinaspa, metti i mutandoni della nonna e la canottiera dentro i mutandoni, non puoi non avere la “zona bikini” pressochè perfetta. Si chiama amor proprio. Che senso ha avere lo smalto semipermanente alle mani e la zona bikini con un’acconciatura alla Edwige Fenech in Giovannona Coscialunga?
La ceretta all’inguine, naturalmente, richiede una preparazione mentale di  un certo tipo, una concentrazione assoluta, e una fascia addominale ben preparata allo strappo. Una volta applicati questi accorgimenti il gioco è fatto, più o meno. Detto questo, dovrebbero fare un’anestesia locale prima di mettere quella cera bollente su una parte del corpo tanto delicata e tanto innervata per poi strappare con totale sadismo. Ecco.

Il mese dell’uccello è alle porte, cari i miei lettori ma soprattutto care le mie lettrici. Quindi, preparazioneconcentrazioneeaddominaleallenato. Non si sa mai.

venerdì 4 marzo 2016

A che cosa stai pensando? Il popolo di Facebook



Bevendo un caffè con il mio affascinante “capo”, web manager di Altroconsumo, dopo una riunione impegnativa, si vira su discorsi più leggeri parlando del popolo di Facebook. In una sua nota, datata 1 aprile 2012, e intitolata “il Facebook che non sopporti”, aveva deliziosamente sintetizzato tutte le odiosità del papà dei social network. Divertente. E illuminante.

Adoro Alessandro, il mio affascinante capo. Non ci vediamo praticamente mai, a parte un caffè quando capito per caso in ufficio. I nostri contatti si limitano alla posta elettronica, quando deve commissionarmi un articolo, o a un like su Facebook e su Instagram, quando c’è una bella foto. E lo adoro perché, a parte essere affascinante anche se non è esattamente il mio tipo – troppo intellettuale e radical chic, tipo quelli che si rifiutano di leggere Ken Follett perché, citazione sua, “è un libro da supermercato” – ha quella magnifica dote del sarcasmo velato senza essere pungente e mai sopra le righe che fa di lui, nonostante non legga libri di Ken Follett ma solo di Luther Blissett, (meglio noto come Wu Ming) una persona intelligente.

Nella sua illuminante nota su Facebook, divide in 5 punti, in perfetto stile Altroconsumo, tutto ciò che il popolo di Facebook scrive nei cambiamenti di stato e che gli provoca orticaria. Copio e incollo, virgolettando come si conviene a una citazione d’autore.

“Ma ci sono alcuni interventi su Facebook che non si possono proprio sopportare. Senza offesa per chi ne fa uso -probabilmente l'avrò fatto anche io -  i post che mi procurano un'immediata orticaria sono i seguenti.
1) Quelli che stanno per partire per una vacanza e si rivolgono direttamente al luogo di destinazione annunciandogli il loro imminente arrivo. Possibilmente con un uso ripetuto della vocale finale e di punti esclamativi. Esempio: "Sardegna, sto arrivandooooo !!!!". "New York: eccomiiiii !!!!!!!"
2) Quelli che ci devono comunicare a tutti i costi qualunque normalissimo momento della giornata, dal caffè alla pausa pipì. Peggio ancora se con ricorso all'inglese: "aperitivo time".
3) Quelli che mettono "mi piace" ai loro stessi post. Oppure che si commentano da soli. E spesso, in questo caso, i loro interventi rimangono tristemente isolati.
4) Salutare tutti, dare il buongiorno o la buonanotte, è normale su Facebook. Ma per piacere, basta con questi "Buongiorno mondo!". Che poi magari hai soltanto 14 amici! Che si sono pure appena svegliati con le palle girate.
5) Quelli che per raccontare qualcosa di bello usano l'espressione "non ha prezzo", mutuata da una pubblicità della Mastercard. Con l'ancor più tremenda variante "priceless".”

Geniale. Ognuno usa i social come diavolo crede. Dando per scontato il fatto che chiunque possa riuscire a tracciare un identikit da due dati incrociati. O, meglio, Facebook è proprio una finestra sui fatti altrui. Da un post, da una foto, da un like, da una condivisione, si riesce a ricostruire la personalità di un individuo. Facebook è un ottimo mezzo per “stalkerare” persone che si conoscono poco. Per capire i tratti principali di una persona, da quelli che postano senza sosta foto dei figli a quelli che condividono ossessivamente link di cani abbandonati o maltrattati.

Ah, poi ci sono quelli che ti invitano a Candy Crush Saga. O qualcosa con “Farm”. E i fans del “milanese imbruttito”. Quelli delle invettive politiche. Quelli degli insulti contro ignoti che mandano messaggi al misterioso interlocutore sperando che capisca con frasi tipo “chihaorecchieperintendereintenda”. Chi ce l’ha con i meridionali perché parlano a voce troppo alta sul treno, chi posta solamente i luoghi status symbol per far vedere che è uno che conta, da Courma a Santa, dalla Costa Smeralda al ristorante di Cracco, dall’ XFactor Arena agli eventi più cool. Che nessuno si offenda, ovviamente, anche io posto quando vado alla Scala, o quando sono, anzi, ero, alle Maldive. Non sono mica senza peccato. Impossibile scagliare la prima pietra. E poi, se volete offendervi, al massimo prendetevela con il  mio “capo”. Ecco.

Poi ci sono quelli più moderati, che usano i social per postare canzoni, foto di viaggi, articoli di attualità, dibattiti in corso, frasi divertenti, pillole di saggezza, aforismi. Ecco per esempio gli aforismi del mio amico di Facebook @Marco Cattaneo sono geniali e godibili. Così come le massime di @Elisa Tomasoni. Per citarne due.

Il mio uso dei social, a parte postare quando vado alla Scala e alle Maldive, è per lo più giocoso. Scrivo vaccate. Posto foto con le boccacce. Ah, perché poi ci sono quelli che si mettono in posa per strada, sul tram, o a cavallo di una palma se sono in qualche isola tropicale, al solo scopo di usare la foto come immagine di profilo per Facebook. Oltre all’uso giocoso c’è però anche l’uso per cui il social nasce ed esiste, la comunicazione, che nel mio caso ha a che fare con il mio lavoro.

Un’infinità di volte ho avuto la tentazione di cancellare il profilo. O di bloccare persone moleste. Perché ce ne sono tante, di persone moleste che fanno commenti molesti  e fuori luogo e che potrebbero anche, estremizzando, rovinare l’immagine. Il mio affascinante “capo” è pur sempre mio amico di Facebook!

In coda, solo un monito, anche se non è mia usanza. Perché in questi giorni ho la vena riflessiva più che quella ironica. Meno condivisioni di animali squartati e meno foto di bambini sbattuti in bella mostra sul web. Please. Un po’ di buon gusto, in fondo, non guasta mai.

giovedì 3 marzo 2016

La tata di riserva



Riserva. Quella che quando si giocava seriamente a pallavolo stava in panca. Quella che faceva riscaldamento e poi si infilava la felpa della tuta fino alla fine della partita. Se tutto andava bene. Pronta ad essere chiamata per entrare in battuta, all’ultimo momento, con due sbracciate al volo per scaldare la spalla. E poi via la felpa, sui tre metri per il cambio, fischio dell’arbitro e battuta in mezzo alla rete. Se non addirittura sotto. Con lo spauracchio di dover portare le paaaaste il lunedì successivo. E tutti quelli che hanno giocato sanno benissimo a cosa mi riferisco. Paaaaasteeee.

Storia antica. Purtroppo. Ora lo spauracchio non è più rappresentato da una battuta sotto la rete. Che poi, fortunatamente di panca ne ho fatta davvero poca. Anche se, c’è da dirlo, ho finito la mia “carriera” proprio in panca, anzi, secondo libero in panchina. Deprimente.

Adesso la mia parallela carriera di madre mi ha imposto  di trovare una tata da mettere in panchina. Non vi illudete, amiche mamme, Ju Ju rimane saldamente al suo posto titolare. Solo che Ju Ju per il week-end va prenotata con qualche settimana di anticipo. Così è nata l’esigenza di una tata di riserva per il sabato sera/domenica pomeriggio quando tutto il mondo organizza qualcosa e ci invita e noi diciamo sempre no.

Sul web c’è una geniale piattaforma per genitori e baby sitter che ti permette, con iscrizione gratuita, di trovare persone disponibili nella tua zona, sia full time che per poche ore. Appena inserisco user, password e il mio annuncio iniziano a fioccare richieste. Leggo, valuto, prendo in considerazione e inizio a contattare ragazze che corrispondono alle mie esigenze. L’identikit ideale è una giovane studentessa, ventenne o poco più, che abbia tempo libero nel fine settimana e voglia di guadagnare qualche soldino. Lo abbiamo fatto tutte. O no?

Fisso i colloqui con un programma serratissimo: 18.30, 19 il primo giorno. 18, 18.30, 19, il secondo giorno. Arriva la prima, studentessa, 20 anni. Entra in casa e mi dà del tu. Lusinghiero, per carità. Ma a vent’anni non è accettabile dare del tu di default alla mamma della bimba a cui dovrai badare. Quale bimba? Tra l’altro. Costanza non viene degnata di uno sguardo. E vi risparmio il livello dei contenuti del colloquio. A parte la risposta “lhocambiatounavoltaamiocugino” alla domanda “saicambiareunpannolino”.

Arriva la seconda, anzi, non arriva. Alle 15.18 mi manda un sms chiedendo di poter arrivare 20 minuti in ritardo sull’orario stabilito. Accordato. Ma non arriva. 15 minuti dopo l’orario previsto ecco un altro sms:

Sono in macchina, sto arrivando…la mia vicina di casa si è sentita male nel pomeriggio e ho aspettato con lei che i figli arrivassero da Torino…ora il compagno di sua figlia mi sta accompagnando in auto, 5 minuti e sono da voi…mi dispiace tantissimo per il ritardo”

Naturalmente i 5 minuti sono 20. Cerco di liquidarla, ma mi dice di essere sotto casa. La faccio salire, abbiamo avuto tutti vent’anni. Entra in casa, tutta trafelata, naturalmente mi dà del tu e non guarda neppure la bambina. Parla di sé a macchinetta senza prendere fiato, precisa che lei non è disponibile a Natale, Pasqua e feste comandate e se ne va. Anche Ju Ju è perplessa. Ma non dice nulla. Mentre Connie continua a ripetere in loop il nome delle due aspiranti tate. Siamo a cavallo.

Il giorno dopo è quello decisivo. Tre appuntamenti. Sono fiduciosa. La ragazza delle 18 non si presenta. Venti minuti dopo la chiamo, non risponde. Mi risponde con un sms qualche minuto più tardi:

“Buonasera signora Alessandra mi scuso immensamente ma avevo segnato nella mia agenda il prossimo mercoledì e in più mi è impossibile raggiungerla ora perché sono ammalata. Mi scusi ancora, so che per un colloquio è ingiustificabile sbagliare giorno. Se vorrà ancora incontrarmi, considerata la febbre, sarebbe meglio la prossima settimana, scusi ancora.”

Sono allibita. Almeno questa mi ha chiamata signora Alessandra. Ma sono allibita.

La ragazza delle 18.30 già parte male perché un’ora prima, sempre tramite sms, mi aveva chiesto di poter portare un’amica. Allucinante. Qualche minuto prima dell’orario stabilito mi arriva, naturalmente, un altro sms:

“Salve, io sono in piazza della repubblica, sto cercando civico 8”

Mi parte una risata isterica. Ju Ju e Connie mi guardano, preoccupate. La signorina ha sbagliato piazza. Prendo il telefono e chiamo dicendole di lasciar perdere. Insiste. Ma le spiego gentilmente che alle 19 ho un altro colloquio.

L’aspettativa sulla ragazza delle 19 è altissima. Arriva, puntualissima. Entra, mi dà del lei, si toglie le scarpe e fa due moine alla bambina. Ci siamo. Però ha trent’anni. E un po’ di mestiere. Mi mette addirittura il CV sul tavolo prima di accomodarsi. Ha fatto il liceo classico ed è laureata in comunicazione ma non trova lavoro nel suo campo e quindi cerca come baby sitter. Mi fa tenerezza e vorrei fortemente credere di averla trovata. Ma so che non è lei, la tata in panchina, e anche mio marito, presente al colloquio la boccia prima di emettere la sentenza con la sua voce fuori campo: “cerca una ragazza straniera che abbia davvero bisogno di lavorare”.

E’ illuminante. Stupida io a non pensarci prima. Scandaglio il sito alla ricerca di ragazze di colore. Sono le mie preferite. L’occhio mi cade subito su di lei, Candide, nerissima e con un sorriso dolcissimo. La convoco per il giorno dopo e lei viene subito. E’ amore a prima vista. Tutta un’altra cosa.

Ora, il tema è questo. Ricordando i miei vent’anni tra pallavolo, università, lavori di ogni tipo, dalla commessa al mercato alla barista, dalla gavetta come giornalista alla gestione di un negozio di maglie da calcio d’epoca, che problema hanno le giovani studentesse italiane del 2016? E’ un fatto generazionale o un fatto educativo?

Perdonate lo sfogo, affezionati lettori, vi prometto di scrivere più spesso e con la solita sollevante ironia.