giovedì 19 luglio 2012

Amarcord


Capita, a volte, di aver bisogno di abbeverarsi da una sorgente pura. Succede quando la linfa vitale si aggira intorno al livello zero. L’energia evapora, si dissipa nell’aria formando un tutt’uno con la canicola che opprime l’atmosfera. Di solito succede in primavera inoltrata quando fa già caldo e gli uccelli tornano dalla migrazione. Il cambio di stagione è traumatico, si passa dal piumino alle maniche corte senza mai passare dal trench, ahimè, con mio grande disappunto visto che ho l’armadio pieno. Di trench.

Dicevo, capita a volte di aver bisogno di abbeverarsi da una sorgente pura. Una di quelle di montagna, con acqua fresca e tonificante. Un elisir che promette ristoro immediato. Un po’ come quando si corre a perdifiato fuori da un bosco oscuro, fuggendo dalle tenebre. I polmoni bruciano, la gola è arsa, il fuoco lambisce ogni giuntura. E poi eccola, la fonte benefica. Mi sa che il processo identificativo di Hunger Games è stato fenomenale. Mi sento Katniss Everdeen che beve acqua di lago tra la vita e la morte. La mia linfa vitale è, decisamente, a livello zero.

Amarcord. Quando la linfa vitale è quasi del tutto esaurita, il corpo ha bisogno di acqua pura e la testa di leggerezza. Svuotare il cervello dai pensieri. Un drag and drop sul dekstop, direzione cestino. La mia idea di leggerezza, dopo aver reidratato a sufficienza le membra, è cercare un rassicurante rifugio in un passato dove la levità cerebrale era una costante. Quella leopardiana età delle illusioni che tanto mi manca. Quando la ragione ha un ruolo da comprimaria e l’istinto da leader. Quando regna l’irresponsabilità e l’appiglio alla cima che tende l’infinito sembra a portata. Un tuffo nell’illusorio passato. Perché in quella sorgente pura, non solo ci si può abbeverare ma si può pure fare il bagno. Il palliativo è un feroce, avido amarcord.

Il mio personale amarcord ha un volto, un nome e un luogo. Il luogo è Varazze. Dopo alcune settimane difficili siamo stati invitati in Liguria, per un breve week-end. Il mare, già di per sé, per me è la medicina più potente per curare nervi tesi e dermatite cronica. Mettici poi la compagnia, una bella casa, del buon cibo e le invitanti bollicine che, non si sa come, stanno lentamente soppiantando il mio amore vero per il vino fermo e fruttato.

Arenzano. Cogoleto. Varazze. Celle Ligure. Il percorso mi è familiare, da ragazzina andavo in vacanza proprio a Celle Ligure. Si partiva a giugno, baracca e burattini, si stava lì 3 mesi e si tornava a settembre. La mia dermatite andava via che è un piacere, i miei nervi erano sempre distesi, tornavo a scuola abbronzata, bionda e sul pezzo. Sono passati vent’anni dall’ultima volta che sono stata a Celle. Venti tondi. Che un po’ fa strano, in verità, perché di anni me ne sento proprio venti. Avvicinandoci alla meta, abbasso il finestrino e inizio a immergermi nei profumi della macchia ligure. L’effetto madeleine proustiana è devastante. Sono tornata ad essere quella ragazzina spensierata che giocava a pallavolo sulla spiaggia, cantava a squarciagola la Canzone del Sole di Battisti accompagnata da una chitarra e usciva la sera per un gelato sul lungomare quando l’unica preoccupazione era il coprifuoco, 22.30 a casa. E poi i primi batticuori, il sole che, infuocato, si adagia nel mare piatto, le stelle che illuminano le passeggiate mano nella  mano sulla battigia, un futuro tutto da vivere e pieno di speranza. Arenzano. Cogoleto. Varazze. Celle Ligure.

Il mio secondo, contestuale, amarcord ha un volto e un nome. Che per questioni di privacy non posso palesare. Non si sa mai. Succede che, per motivi familiari, vengo catapultata di punto in bianco a dover, mio malgrado, frequentare un ospedale. Un reparto di chirurgia. Nella sala d’attesa, in apprensione e con il mio Ipad tra le mani per distrarmi, vedo passare nel corridoio un camice bianco. Un volto già visto, sono sicura, sono campionessa europea di memoria. Colloco quel volto immediatamente. Liceo Majorana, Rho, classe terza, sezione D. Io facevo la quinta. Il giorno dopo ho l’’occasione di verificare. E’ proprio lui. Mi identifica, ero rappresentante di istituto al liceo e avevo quella popolarità e quell’illusorio delirio di onnipotenza che solo la giovinezza è capace di dare. E’ abbastanza facile riconoscermi, non sono cambiata poi tanto. La madeleine proustiana ritorna violentemente a tormentarmi le viscere. E io sono ancora quella ragazza con i capelli lunghi alla Jenny di Forrest Gump e i jeans elasticizzati che organizza il sit-in per la Guerra del Golfo. Ci tuffiamo, entrambi, in un dolce ricordo. Il mio sguardo profuma di magica meraviglia. E’ diventato medico chirurgo, assistente di un luminare. E mi confessa di non aver mai studiato la Divina Commedia. Fingo di essere allibita. E il giorno dopo, d’istinto, compro una Divina Commedia da regalargli. Per ringraziarlo. Per aver reso possibile una speranza medica. E per avermi fatto gustare, di nuovo, quella deliziosa, soffice madeleine.

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