lunedì 31 ottobre 2016

Quando le scarpe ti stanno strette anche se sono del tuo numero




Venerdì sera pre lungo ponte, ore 21. Invece che essere galvanizzata sono in ansia. Eppure il venerdì sera è sempre stato il mio momento preferito. Sono appena rientrata da 5 giorni londinesi lontana da figlia, marito e tata. Quando riassapori la libertà, il ritorno alla realtà è uno shock. Riuscire a cagare per 5 minuti di fila senza che nessuno entri in bagno con te dicendo pure mammachepuzza era un lusso che avevo rimosso.

Guardo un film con Drew Barrymore, svogliatamente. La iena sta dormendo, mio marito, “stranamente”, non c’è. Intanto chatto con la mia nuova amica Brandi, la mamma di un bimbo che va a scuola con la iena. Stasera ho il mood malinconico, mi chiede perché, le dico che ho le scarpe troppo strette anche se sono del mio numero.

In effetti dopo la gravidanza mi è cresciuto il piede di mezzo numero. Così ho avuto la scusa di poter cambiare tutta la scarpiera. Tranne le Manolo Blahnik e le Louboutin. I pezzi vanno conservati a prescindere. Ah, ho anche cambiato tutto il guardaroba perchè mi si è allargato il torace. E poi ho 41 anni e, come qualcuno mi ha fatto simpaticamente notare, mi sono imborghesita e, attenzione, ripulita. Tra i denti mi ha anche dato della mantenuta ma sorvoliamo. E’ pur sempre vero no? E da buona ripulitamantenutaimborghesita sono stata costretta a cambiare guardaroba. Mica posso vestirmi sempre da ragazzina o come una stracciona.

Puoi togliere la ragazza da Rho ma non Rho dalla ragazza. E’ un detto che è stato adattato. Credo che in origine ci fosse il Bronx o qualche quartiere periferico londinese. Ecco. Il punto è che la ragazza da Rho è stata tolta. Ma Rho dalla ragazza no. Io rimango io. Vado a farmi le unghie e il colore dal parrucchiere. Ma la sostanza non cambia. Non è perché vivo nel centro di Milano e ho sposato un avvocato che può far di me una “ripulita”.

Anyway, non si stava parlando di alta borghesia milanese ma di scarpe troppo strette. Che, tradotto, vuole dire che quando si ha una vita fortunata e senza reali problemi, i problemi si devono creare. E’ sostanzialmente un fatto legato alla leopardiana teoria del piacere. Cioè, il concetto è proprio quello della teoria del piacere, traslato sulle scarpe troppo strette.

E’ il 1820 quando il buon vecchio Giacomo, in quel di Recanati, elabora la teoria del piacere. Senza dilungarmi in pedanti disquisizioni filosofico letterarie la spiego in due parole. Quelle due parole che durante gli anni alla facoltà di lettere mi permettevano di memorizzare velocemente il concetto. Me l’ero immaginata più o meno così: il cielo tende una corda con una specie di asola invitando ad afferrarla. Più ci si affanna meno si riesce a prenderla. Il desiderio è illimitato e il piacere che si ricerca è, di conseguenza, infinito. Ma non può essere soddisfatto perché l’asola è inafferrabile. Si cerca quindi rifugio nell’immaginazione che però, scemata l’età dell’illusione, è talmente debole da non esistere più.

Gli anni alla facoltà di lettere erano anche gli anni dell’illusione. Quando le scarpe erano ancora abbondantemente larghe. Ora è diventato assolutamente impossibile rifugiarsi nell’immaginazione. Quello che vale ora è solo la fuga. Una fuga vera a gambe levate, non una fuga nel magico mondo della fantasia. Quanto sarebbe facile. Quanto sarebbe liberatorio.

La iena ha la faringotonsillite acuta con tanto di placche purulente in tutta la gola. Ecco perché venerdi sera pre lungo ponte, ore 21 avevo l’ansia. Ah, ha pure un fortissimo acetone ed è quindi a rischio vomito antibiotico. Un disastro. E come tutti i bimbi malati è accozzata a me, giorno e notte, appesa alla gamba e al collo, con quella nenia lamentosa continua. E io non riesco a respirare. Altro che scarpe strette, è come se quell’asola tesa del cielo mi stesse strozzando. E allora prendo l’ipad e medito la fuga. Guardo i voli per Alghero, teatro di meravigliosi ricordi sturm und drang. Guardo le case a Tenerife. Cerco qualche amica per uscire a pranzo. O a cena. Voglio solo scappare lontano, Respirare aria depurata dallo streptococco. Cazzo di streptococco.

Poi però mi arrendo a quegli occhietti cerchiati e violacei. A quel musetto triste. A quel corpicino vivacissimo senza energia. Scappo, si. Ma in farmacia a comprare antibiotico e fermenti. Coca Cola e Biochetase. Grissini e banane. Si, mi arrendo. Le scarpe sono un po’ strette ma i piedi non fanno più male.

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.


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